Quando penso a come è finita! Ma è stato un gioco? Ancora adesso stento a capirlo, a cogliere le implicazioni di un rapporto, e della sua conclusione, o forse sarebbe più corretto dire rottura, unilaterale, di una relazione fatta di parole, di rapidi messaggi, ma che necessariamente coinvolge, ha coinvolto, qualcosa di più grande, di più importante. Un’essenza che non so cogliere.
Come sono limitato! Posso fingere che niente è mai successo? Non so se posso dirlo, non so se riesco a pensarci, trascuro me stesso trascurando il mondo, non mi prendo mai sul serio, sono niente, sempre niente, e va bene, dico che va bene così.
Cosa so dire di quei giorni? Non capisco se è più grande, se è stato, averli vissuti, o il dolore di oggi. Sì, perché vi è un continuo dolore che mi tormenta, un refrain che mi tortura ininterrotto, unito al dolore di aver provocato dolore.
È una sensazione che vorrei evitare, o non aver mai provato, che non fosse stata parte di me. Un’esperienza da cancellare, come mai esistita. Capita spesso, mi è capitato, forse sempre, se fosse così per tutto, ma forse sarà così per tutto, per tutto quello che ho vissuto, tutto sarà dimenticato, presto, un mondo mai esistito, forse neanche inventato, un pensiero che mi ha attraversato la mente.
Vorrei che non avesse lasciato segni, non questa lacerazione, non questo turbinio di sensazioni malaticce, o forse sì, e allora sarebbe la molla, il motivo della mia ricerca, o forse la ricerca di un motivo, non so, però, quando ci amavamo, era bello, non pensavo certo di organizzare storie, era tutto così spontaneo, bastava un semplice sguardo e tutto …, non so, non so spiegare, non trovo le parole, piccole cose, che ci lasciavano soddisfatti, che ci davano la felicità, che forse non ho saputo apprezzare abbastanza, a quei tempi cercavo altro. Forse.
Mi è stato anche consigliato di non dire tutto, che forse è meglio che certe cose restino come non apertamente dichiarate, magari semplicemente anticipate, ma non espresse del tutto. Ovviamente per me non è così, a me piace raccontare, se c’è una cosa che voglio dire, perché mai dovrei tenerla nascosta?
Ma poi insistono e mi chiariscono che non si tratta di rivelare segreti. No, non è questo, è una questione di stile, è che c’è modo e modo di dire le cose. Ma cosa volete? Io ho il mio modo, non so se è quello adatto, o giusto, però, ormai, così so fare, alla mia età, cosa volete? Imparare a scrivere in un altro modo non mi va. Se a qualcuno non piace, non è detto che debba continuare a leggere, anzi, non doveva nemmeno cominciare, le cose erano chiare fin dall’inizio, ma non voglio più perdere tempo a discutere di queste stupidaggini, continuerò a scrivere così, come più mi piace, è il mio metodo, che ho sviluppato in tanti anni, di ignoranza, se volete, ma io sto bene così, perché io le cose le faccio, quelle che faccio, e le dico, quelle che dico, ma non so perché le faccio, e nemmeno perché le dico, nel senso che non sempre c’è una vera ragione, per tutte le cose che ho fatto e che ho detto, è così, semplicemente.
Certe cose, poi, le dico a voce alta, così le posso sentire, e non sembrano tenute nascoste. Mi faccio l’idea che se le pronuncio, è come se sto dichiarando una verità, non necessariamente vera, ma comunque, è già qualcosa, non passa in silenzio. Ma non so se dire tutto, non so se vorrò dirlo.
Il lavoro appare improbo, l’impresa più che ardua, ed il tempo a mia disposizione sembra ridursi a vista d’occhio. Sento mancarmi la terra sotto i piedi, ma, poi, mi dico, come per convincermi, Comincia, dove arrivi ti fermi.
Già, arrivare ad un punto, come fosse semplice. È che non sempre sono in grado di capire quando arriva il momento di fermarmi e così vado avanti, forse anche stancamente, senza grandi idee, quando invece di cose da raccontare ce ne sarebbero tante, ne avrei tante, ma non so se ne ho voglia, non so se voglio dire che, una storia, un momento, una giornata, un episodio, un’esperienza nuova, con lei, che mi ha lasciato, no, che io ho lasciato, non so, e non saprei ripetere esattamente come sono andate le cose.
So solo che adesso mi ritrovo con una voglia o necessità di recuperare situazioni che in un modo che non ho ancora capito, hanno fatto parte del mio passato, recente, e che forse appartengono ancora a questo presente, se è vero che ne sto parlando, anche se vorrei essere già più avanti, oltre, perché quando riesco ad immaginare il mio personaggio inventato è come se fosse presente, vivo, come se fosse una persona reale, di cui racconto le azioni, i pensieri, i sentimenti.
Con lei, però, è diverso, lo è stato fin dall’inizio, perché lei non è un personaggio del tutto inventato, esiste davvero, non devo fare neanche lo sforzo di concepirlo dal niente, di dargli un nome, un’identità, una storia. Solo che, nella pratica, non è presente, non è qui con me, non è vicino a me, non lo è più, per quanto cerchi di dialogare, per quanto mi sforzi di parlarci, per quanto l’immagini con una sua voce, con un suo tono, con le sue altezze, le sue frequenze, con le mille sfumature di una voce che, perché non posso dire calda?, perché non posso definirla suadente?, a volte mi manca il coraggio di osare, perché non posso ripetere per lei l’intero repertorio di voci dei personaggi femminili della letteratura mondiale?, ciononostante, una persona che diventa personaggio è sempre un percorso difficile da realizzare, molto più di quanto non sia far diventare credibile un personaggio fittizio.
Ad esempio, la scena dell’incontro, pensavo di averla preparata bene, verificando tutti i dettagli, ma poi mi resi conto che in effetti c’era qualcosa che non avevo ancora previsto, un particolare non di poco conto, e così risolsi di inserire nel copione provvisorio poche battute veloci, messe li quasi per caso, una necessità che mi permetteva di creare un contesto in cui ambientare la storia.
Eravamo in pizzeria e, aspettando che ci servissero, le rivolsi una domanda che ebbe un effetto devastante, come di un cazzotto in una faccia di vetro. Di punto in bianco, senza stare a tergiversare, le chiesi quali metodi anticoncezionali usava.
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