Da settimane chiuso in casa. Esco di tanto in tanto per andare al supermercato. Con maggiore frequenza per comprare il pane, e allora approfitto per buttare la spazzatura. Resto a casa come forma di sopravvivenza.
Non è vita questa. Ma quale è, invece, la vita? Quella che facevo prima di questa reclusione forzata?
Penso anche a questo. A cosa avrei fatto se non fossi costretto a rimanere chiuso in casa. Sarei andato a lavorare, certo, un lavoro comunque che non mi soddisfa, se non per il fatto che mi consente una certa autonomia dal punto di vista economico.
Sarei uscito per fare quattro passi, una corsa, un giro in libreria, una visita al mercatino dell’antiquariato e poco più. Sarebbe stata più vita? Pensieri come questi, domande così mi passano per la testa in questi giorni. E non so rispondere.
Il tempo se ne va, in ogni caso. Lo riempio con poco, come se fosse un contenitore da colmare in qualche modo. A volte penso che è il tempo a riempire me, la mia vita, anche se non ho ben chiaro cosa possa voler dire.
È il tempo ad occupare me, non il contrario, l’immobilità del tempo a paralizzarmi. Cioè, io resto immobile di fronte al trascorrere della vita, inerte e inoperoso.
Come se mi trovassi di fronte alla pagina bianca di un taccuino e non avessi idea di cosa scrivere. Così è la vita, la mia. Non so come viverla. Altro che dono e, a volte, a causa di questa incapacità, si trasforma in un incubo.
Un mese di isolamento è la consapevolezza di un mese di assenza. Se fosse un anno sarebbe un anno di assenza. E così via. A ben vedere sono in quarantena da una vita. Non ho fatto niente, o molto poco. Pochissime le tracce che ho lasciato e che lascerò.
Una vita in quarantena a mia insaputa. Non so definire meglio quel che è stato. E saperlo non mi aiuta a cambiare tanto che potrei continuare a non uscire fino alla fine dei miei giorni.
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