Lettori fissi

venerdì 26 dicembre 2025

Le parole dell'illusione

Detesto l'intreccio
Trovo disgustosa la letteratura che ostenta un plot annodato. 
Se provo a inserire una cosa del genere nei miei racconti, 
ne ho spavento e lascio morire il tutto.
(P. Handke)

Il nulla presuppone il vuoto. Due concetti che vanno di pari passo. Non riuscirei a scinderli. Se penso a uno mi viene in mente l’altro. C’è qualche teoria che può smentire questo assunto? 
Ancora una volta alle prese con questo autore. Non so bene, a dire il vero, perché continuo a leggerlo. Cerco, impresa ardua, una storia tra le pagine dei suoi romanzi. Non perché sia interessato alle storie, ma quasi per una sfida. Vince sempre lui, perché difficilmente riesco a trovarne, o forse ci sono e non sono in grado di individuarle. Ci sono molte descrizioni, questo sì, certi suoi libri sono fatti solo di dettagli, di analisi minuziose dei paesaggi, particolari che solitamente appaiono privi di significato. Non per questo autore. 
Al principio era il nulla. Più tardi i pensieri hanno cominciato a far sentire la loro influenza. E con essi i ricordi. Di qualcosa prima del principio. Solo che non sapevo che quello non fosse il principio. Tutto si è rivelato successivamente. Non saprei dire a quando risale il principio. Il mio primo principio.  
Le storie sono molto lente, per consentire al narratore l’osservazione attenta e scrupolosa dello scenario. Non ci sono scatti, tutto procede con una lentezza a volte esasperante. Chi ha fretta metta da parte i suoi libri, anzi, non li compri proprio. La lettura è meditazione, per questo autore, un esercizio di estrema pazienza.  
Il vuoto è inutilità, anche? E il nulla? Ecco un altro concetto da approfondire. Ne avrò per un bel po’. Potrei non finire mai, mai chiudere la partita, mai la parola definitiva. È un mestiere difficile quello dello scrittore. Sembra di avere tutto a portata di mano, ma è solo finzione. O forse illusione. 
Le parole dell’illusione, ecco cosa vado cercando. Non mi ero reso conto nei miei sforzi quotidiani, che avevano la loro origine in momenti lontani. Cose di cui non ho ricordo, tanto erano lontani. E quelle parole, di chi erano? Poteva essere chiunque ad averle pronunciate. Alla sera arrivo con la testa pesante. Nel finto silenzio si carica di contorni, o dintorni, di cui non so distinguere la provenienza. Diventa una testa oppressa. Le voci si sovrappongono, formano un caos compatto. Lì dentro cerco di resistere. Questa storia può avere diverse parole. Spetta a me scegliere quelle giuste. Ma c’è un modo giusto per raccontare una storia? Il dubbio è legittimo. Io ho il mio punto di vista. Fin quando ho il dominio sulle parole, fin quando ho il dominio delle parole, o il potere, fin quando riuscirò a scrivere, e la mente non travisa, fin quando la testa mi accompagna, fin quando ho le idee chiare, o forse no, meglio non averle chiare, meglio lasciarsi dei margini di approssimazione, o di miglioramento, ma possono mai migliorare le parole? Non è una malattia, da cui si può guarire, fin quando ce la farò a vivere così, a parlare a vuoto, come a vuoto, quasi a vuoto, perché qualcosa mi sembra che possa fare, non chiaramente, ma è un primo passo, non so quanto lunga potrà essere la strada, fin quando riuscirò a leggere, a capire quello che leggo, ma non è detto, forse solo illusione, ecco di nuovo questa sensazione infelice, riuscirò a disfarmene un giorno? Tutto questo potrei raccontarlo a qualcuno, una confessione, una seduta terapeutica, la lettura dell’anima, dell’interno, mi accontenterei di saper leggere i miei pensieri, o al limite anche la mano, come fosse un gioco. 
Qualcuno deve averne già parlato. Non dovrei perdere tempo. Ma non è un perdere tempo. Non so chiarire questo concetto, non so esprimerlo con parole comprensibili. È per questo che mi sforzo ogni giorno di scrivere. La speranza è non dico una risposta chiara ma almeno qualcosa che vi si avvicini. Una gratificazione, anche piccola, di tanto in tanto. Da cosa potrebbe arrivare? Sto raccogliendo materiale. Si accumulano pensieri che annoto fiducioso, con pazienza. Quando arriverà il momento, non so però come farò a capirlo, forse un allarme scatterà dentro me. Un tic incontrollabile, uno sfiato incontenibile, quando irrefrenabile si paleserà un sintomo, quando non riuscirò più a leggere, quando questa fila infinita finalmente finirà, quando l’esaurimento si esaurirà, quando non ce la farò più ad aspettare, non so cosa, però, ma ho buoni motivi per credere che in qualche modo me ne renderò conto, quando il cerchio si chiuderà, come spesso avviene, qualcosa che mi avvolgerà, come una cappa, o qualcosa che mi proteggerà, sarebbe preferibile, ma è di incertezze che è fatto il mondo, vado avanti senza una guida, salvo le parole che incontro, ovunque, e cosa resterà di me? In quel mondo c’è di tutto, cioè, non manca niente, assolutamente niente. Non è una protezione, per me. È un perdermi, senza confini. Certo, potrei provare a ritrovarmi in qualche pagina, un breve accenno ai miei dolori, i buchi in testa, i vermi dentro, il vuoto, ancora una volta il vuoto, ma quello come faccio a nasconderlo? C’è, è visibile, non si può simulare, e non è nemmeno il peggiore dei mali, ci sono gli anni che restano, è ciò che mi preoccupa, ogni giorno di più, non che ci pensi sempre ma è che mi si avventano contro e non so come affrontarli, se pure c’è un modo. Farei bene a non pensarci affatto, invece. Quei giorni, quegli anni, cosa me ne importa? Così. Come se niente fosse. E invece, sempre a cercare un motivo. 
La cappa si restringe sempre più. Il prurito si impossessa del corpo. Le parole non bastano. Come uscirne? Lo sfiato dall’ano non arriva a liberarmi da tutti i mali. Servono rimedi più efficaci. 
Questo inverno, questo mese, dicembre, l’attesa della fine dell’anno, dell’arrivo del nuovo, sono fasi vissute tante volte, ormai. Allo stesso modo. Non potrei dire niente di nuovo. Non è da qui che dovrei partire. Uno scenario disincantato potrebbe bastare? Se solo avessi un riferimento preciso! Un luogo dove vivere, ecco. Tolto il superfluo. Ci sono giorni in cui tutto appare superfluo. Sarà adeguato questo termine? A cosa? A rappresentare la situazione. Ma qualsiasi situazione non è altro che semplice invenzione. O anche non semplice, non è questo il punto. Però dire dicembre è già un buon punto di partenza. Non importa che non si scorga ancora la destinazione finale. Ho mosso i primi passi, mi sento come uno che si è avviato lungo un percorso. Non chiedetemi dove sono diretto, potrebbero sorgere in me dei problemi, correrei il rischio di bloccarmi, ogni possibilità di ripartenza definitivamente compromessa. Non voglio sentire voci, nessun consiglio. Sono un viaggiatore che ama sognare. Certo non è facile sottrarsi a questa volta che avvolge. O era una cappa? L’introduzione di un nuovo concetto mi inibisce il proseguimento. Stavo così bene prima. 
La pelle del corpo si sfalda. Il corpo, cioè. Il freddo di questo dicembre non preserva. Sto provando a coinvolgere il tempo in questa impresa. Dovrà pur scorrere in qualche modo. Dovrà arrivare l’anno nuovo, carico di prospettive. E se non ci sono vado avanti lo stesso, se pure è proseguire questa vergognosa fissità. Come potrei qualificarla altrimenti? 
Mi chiedo a chi mi rivolgo nei sogni, ma anche adesso, a chi sto parlando? Non mi piace riferirmi al soggetto che scrive, vorrei affrancarmi almeno quando dormo, ma anche da sveglio. Sembra che abbia in mente solo un pensiero, e forse è anche così. Ma se comincio ad andare qualcosa potrebbe nascere. Un noioso epistolario tra me e me stesso. Se avrò tempo mi piacerebbe leggerlo. Intanto scrivo. 
Il cielo si è fatto scuro, come se prima fosse una giornata piena di luce. Sì, doveva esserci il sole, un sole di dicembre. Cercavo il dio del sole. Gli avrei chiesto di splendere più forte, di caricare le giornate di più luce, renderle luminose, per poter tenere gli occhi aperti più a lungo. Non che fossi stanco di dormire, e di sognare, ma è grazie all’intreccio tra il chiaro e il buio che riesco a vivere meglio e trovare le parole più adatte. Adatte a cosa? A raccogliere gli elementi per descrivere un’esperienza avvolgente, di cui ho sempre più bisogno, e coinvolgente anche.  
Drizzo le antenne, si dice così, per avvertire i sibili, il rumore del tempo, cercando di distinguere e isolare note che possano servirmi. Affino anche l’olfatto. Mi sto esercitando da un po’, senza darlo a vedere. Preferisco stare sulle mie, non svelarmi, solo così potrò avere qualche speranza di afferrare il vero, o qualcosa di molto simile, perché non è che sia importante cogliere la verità nell’osservazione, o nella percezione. Ci vuole qualcosa che mi dia una scossa. Che mi svegli e che mi tenga sveglio, anche quando sogno. Oggi, ad esempio, ho incontrato la dottoressa Ribbegnini, lavora presso l’organizzazione mondiale del commercio, ma non è che sappia cosa farmene di questa conoscenza. È una signora di una certa età, ma mi sfugge il senso della sua presenza nei miei sogni. Potrei tranquillamente farne a meno. Ho vissuto anni, decenni, senza sapere della sua esistenza, anche se, comunque, non è che siano stati anni, decenni, felici, o interessanti. Con lei non sarebbe cambiato molto. 
L’inverno è un letargo continuo. Non so se augurarmi una lunga durata. Perché ci sono momenti in cui sogno uno stacco, un distacco, un isolamento senza tregua. Non dura molto questo desiderio e probabilmente è il frutto di disaffezioni momentanee alla vita. Poi mi riprendo. Ma è in quei frangenti che più riesco a trovare l’ispirazione, come quando mi lascio trasportare dalle prime ondate di sonno, non solo di notte. Convivono in me due o più mondi. Nel tentativo di posizionarmi ricavo la spinta necessaria per seguitare, per seguire una traccia, inizialmente confusa ma che va schiarendosi a misura che mi assopisco e come niente mi ritrovo in un sonno profondo, ma la storia prosegue anche in quei paraggi. Al risveglio distillo poche frasi ma sufficienti a riportare l’autostima a una soglia accettabile. Solo che dura poco. Ma è già qualcosa.  
Se penso che potrei raccontare la vita come una lunga camminata sarei ancora ai primi vagiti. Seguendo il ritmo di questa lettura, cioè. Ogni anno un romanzo, o un diario. Oppure no, ogni mese, ogni giorno, ogni momento. E chi sarebbe interessato a seguire le mie divagazioni? Ma non devono interessarmi gli interessi altrui, mi dico di continuo, come per giustificare un’incapacità a far incuriosire il mondo alle mie vicissitudini, più o meno interessanti.
Rinuncerei subito, se pure fossi già in grado di scrivere, per palese inadeguatezza a rappresentare non dico il mondo, per me ancora da scoprire, ma anche soltanto una specola da cui poter osservare la zolla di terra su cui poggiavo i piedi, nemmeno un metro quadrato, se può servire a dare un calcolo approssimativo della base d’appoggio del gattonamento. A cosa, poi? A calcolare piuttosto il vapore che da lì emanava, nelle mattinate invernali, tutt’al più. 
Tutto è lecito in questo mondo, mi dissi, facendomi forte del mio ruolo di creatore, ancorché poco prolifico, oltre che di creatura che però non riconosce una divinità soprannaturale. Ma questo forse si era capito, e non c’era bisogno di sottolinearlo. Ma tutto fa, non intendo affatto tornare sui mie passi.  
Quest'uomo è capace di vedere tutto, anche dove non c'è niente, o poco. Mi ricordai di Veronica. Non saprei dire perché. Potrei indagare, ma ormai era con me. L'avevo invitata a trascorrere alcuni giorni a casa mia, dopo la morte di mia moglie. Non subito, però. Lasciai passare qualche settimana, alcuni mesi. Quando mi sembrò il momento giusto la chiamai. Accettò senza indugi. Non me l'aspettavo, se devo essere sincero. La ospitai con l'intento di farci compagnia a vicenda. È brutto morire di solitudine. 
Non posso darti altro che un posto dove dormire, il mio avviso, quando sembrò disposta a raggiungermi. Non volevo suscitare in lei illusioni a cui non avrei potuto o saputo dare un seguito, o un credito. Però, ti puoi fidare di me, fu la conclusione della presentazione. Non so come la prese. 
Quest'uomo non ha bisogno di cadere da cavallo. Ha cellule, molecole, atomi, neutrini infissi negli occhi. È dappertutto e in ogni tempo. Anch'egli si fa guidare da Virgilio. Divinità non rende.
Non so che farmene di Veronica. Quanto a lei, si appropriasse pure della mia casa. Ormai sto per finire. Non ho interesse in niente, più. Salvo ripensamenti dell'ultima ora, ma in tal caso non avrei problemi a ritornare, e lei, lo so, col suo spirito misericordioso e caritatevole, mi accoglierebbe come il figliol prodigo.
 

mercoledì 24 dicembre 2025

Uno bravo

Se ci fosse uno bravo, più bravo di me, non che ci voglia molto, se ci fosse avrei già fatto, risolto ogni problema. C'è. Lo devo trovare. C'è gente che è esperta in tutto. E per ogni problema c'è sempre qualcuno in grado di risolverlo. È di questa gente che devo circondarmi. Dovrò farmi più amici tra questa schiera. Osservo senza intervenire.
In tutto questo mondo qual è il mio ruolo? Il mio compito? Solo osservare, o c'è dell'altro? Intanto prendo nota di ciò che mi circonda. Mi lascerò guidare dagli eventi.
La storia c'era tutta. Dovevo solo svilupparla. Non doveva essere un lavoro complicato. Girare tra i banchi del mercato, dove trovare di meglio? Afferravo un brano di discorso e lo facevo mio, lo piegavo ai miei scopi. Anche l'occhio vuole la sua parte. Non l'ho mica inventato io questo detto. Chi l'ha pensato doveva avere le sue buone ragioni per farlo. Ma sono detti che risalgono all'origine dei tempi. E adesso me lo ripetevo, perché suonava bene, ed erano gli occhi, benché supportati dagli occhiali, che mi avevano fatto notare quella tipa. Doveva venire da qualche paese dell'America del Sud, i tratti erano quelli, intenta a osservare un indumento intimo, che girava e rigirava tra le mani come per immaginare come poteva starle addosso. Era una canottiera bianca, con dei ricami nella parte superiore, che favorivano una trasparenza evidente, funzionale a far intravedere a un eventuale osservatore il reggiseno sottostante. Mi aspettavo che mi chiedesse un parere, era visibilmente indecisa se acquistare il capo, mi ero avvicinato di proposito, perché era evidente che aveva bisogno di un consiglio, si vedeva da come volgeva la testa a destra e a manca senza essere in grado di prendere una decisione, di fare una scelta. Per questo genere di indumenti non era previsto il cambio. Una volta comprato non potevi restituirlo e prendere qualcos'altro se non ti stava, o se cambiavi idea. L'avviso era ben visibile, scritto a caratteri cubitali su un cartello che non lasciava dubbi. Forse era questo che tratteneva l'india da un acquisto affrettato. Aveva bisogno di tempo, di valutare bene, per non commettere errori.
Ma non è solo di scene simili che mi servo. Prendo spunto anche dalle frasi che leggo nei libri. A volte da un romanzo non distillo che poche parole, che tuttavia reputo sufficienti a giustificare il prezzo pagato per l'acquisto. Mi accontento di poco, mi verrebbe da dire, e mi dispiace per lo scrittore che, chissà quanto ha impiegato a scrivere tutte quelle pagine per me praticamente inutili, o quanto meno inutilizzabili, inutilizzate, o sottoutilizzate. Ci sarà di certo qualcun altro che saprà apprezzarle, com'è giusto che sia.
Dei discorsi che intercetto per strada o delle frasi che reputo interessanti quando leggo non è che abbia idea immediata di come utilizzarli. Sono cose che arrivano quando meno ci penso. Registro tutto e a tempo debito si ripresentano come un conto da pagare, senza che riesca a capire o a ricordare quando avrei contratto il debito. Queste cose non hanno una spiegazione logica apparente. lo non sono in grado di trovarla e, a dire il vero, ci ho anche rinunciato, ormai,
Quando mi guardo allo specchio non devo rispondere a nessuno se non a quel tipo che mi sta di fronte e che mi fissa, e che io mi ostino a osservare, nel tentativo, o speranza, di trovare un perché ai tanti interrogativi che mi passano per la testa e che si vanno accumulando per ogni giorno che passa, senza avere idea di dove si depositino, in quale parte di me si accalchino, più o meno confusamente. Sono fatto di tutto questo? Anche di questo? E qual è il peso delle domande senza risposte? Quanto spazio occupano dentro il mio corpo? E quando sarà saturo completamente, sarà allora che arriverà la fine? Oppure in determinate circostanze, e a certe condizioni, evaporano come succede per il sudore, consentendo il ricambio? Nel dubbio, ho aperto un buco nel colmo della testa ormai pressoché calva. Un altro sfogo, un nuovo orifizio, un'ulteriore valvola di sfiato.
Non riesco a sostenere il peso dei ricordi, dei pensieri, delle parole. Sono fragili, non lo sapevo. Con gli anni si accumulano. Non mi aiuta parlare, né scrivere. Oppure non lo faccio a sufficienza. Il cuore è come soffocato. E poi, non evacuo abbastanza. È più quello che incamero di ciò che riesco a buttar fuori. No, non solo in quel che mangio, è che non riesco a trovare la giusta osmosi. È un problema di equilibrio, l'ho capito. O meglio, di mancanza di equilibrio.

sabato 15 novembre 2025

P O L P A

 


POLPA, romanzo di Flor Canosa, non si esaurisce nella prima lettura delle circa cento pagine che l’editore NEO ci propone nell’ottima traduzione di Giovanni Barone. A voler analizzare anche solo alcuni punti affrontati nel testo ci si potrebbe soffermare a lungo.

Questa non è una recensione. Quando leggo mi si intrecciano in testa ricordi di cose già lette in altri momenti, in altri romanzi. È il bello della letteratura. È successo così anche in questo caso. Tante cose del romanzo inevitabilmente restano indietro. Per me spesso il testo è soprattutto un pretesto, una scusa per ritornare su argomenti a me cari, già evidenziati nella lettura di altri libri.

Una cosa su cui mi piace soffermarmi fin da subito è il nome di un personaggio, Lunes, che è anche la voce narrante della seconda parte di POLPA. Per un autore argentino penso sia quasi inevitabile ritrovarsi, prima o poi, a fare i conti con Jorge Luis Borges, anche se, Irma, un altro personaggio di POLPA, tra parentesi, afferma che ‘nessuno sa se sia davvero esistito o sia una leggenda’.

Lunes, per il fatto che ‘soffre di una sindrome di incontinenza orale e ipermnesia’ non può non far pensare a Funes, personaggio di un racconto di Borges, condannato, in conseguenza di una caduta da cavallo, a ricordare tutti i dettagli di ciò che osserva, cosa che gli rende impossibile una vita normale.

Umberto Eco, profondo conoscitore dell’opera di Borges, affermava che la figura di Ireneo Funes è come la metafora del WEB.

Nel romanzo di Flor Canosa il RACK è una sorta di evoluzione semplificata del WEB. Nel RACK non c’è bisogno di lunghe ricerche, i concetti sono ordinati secondo idee semplici.

(RACK non dev’essere un nome scelto a caso. Tra l'altro è anche un acronimo, derivante dai termini inglesi Risk-Aware Consensual Kink, col quale si indica un insieme di pratiche sessuali, con relativi rischi, accettati consensualmente dai partecipanti. E pratiche sessuali, non propriamente ortodosse, in questo romanzo di certo non mancano).

Il RACK è uno dei meccanismi di controllo che il sistema mette in atto per soggiogare le masse. In questo senso POLPA può essere considerato anche come una riflessione sul potere e sul controllo da esso esercitato.

Nella letteratura ispanoamericana tante opere affrontano questo tema, attraverso la critica ai molti dittatori che si sono succeduti al potere in vari stati. Tra gli esempi più noti segnalo Il Signor Presidente, di Asturias, e L’autunno del Patriarca, di Márquez, ma numerosi esempi si possono rinvenire in tanti altri romanzi e racconti ambientati in America Centrale e Meridionale.

Anche POLPA, diviso in tre parti, un po’ letteratura, un po’ filosofia, oltre che rientrare in un genere prossimo alla distopia, può inserirsi nel filone della letteratura che tratta il tema del controllo da parte di un potere e del tentativo da parte dei sudditi di affrancarsi da esso attraverso vari metodi.

Nel mondo costruito del futuro c’è incapacità di provare emozioni, c’è mancanza di empatia, il dolore è proibito per imposizione. Ecco quindi che, come reazione individuale a queste restrizioni, i due personaggi principali, Lunes e Irma, fanno di tutto per procurarsi piacere e dolore allo stesso tempo, con pratiche sessuali di sadomasochismo spinto all’estremo.

L’uso di immagini pornografiche, il linguaggio a volte anch’esso violento, sembrano espedienti narrativi funzionali a definire il livello di violenza perpetrata dal potere. Precedenti del genere si possono rinvenire nei lavori degli argentini Osvaldo Lamborghini e, più recentemente, di Ariel Luppino e, per altri versi e in altre forme, anche in Alberto Laiseca. Ciò che rende anche più interessante il romanzo della Canosa è il fatto che in questo caso il racconto proviene da una voce femminile.

Nell’ultima parte di POLPA, come una sorte di epigrafe, è riportata una frase di Michel Foucault. E non poteva essere diversamente, dal momento che il filosofo francese ha analizzato e studiato a fondo il concetto di controllo, come sistema di potere e soggiogamento che determina i comportamenti individuali per mezzo di dispositivi di sorveglianza, una sorta di panopticon, che nel caso del romanzo della Canosa può essere individuato nel RACK.

Un’ultima considerazione è riservata al traduttore, Giovanni Barone, che ha saputo rendere ottimamente un testo che di certo presentava non poche difficolta nella scelta dei termini da rendere in italiano, soprattutto nelle tante scene dove vengono descritti i rapporti sodomasochistici tra i due personaggi.

Ma, ormai, il suo nome, quanto alle traduzioni di autori ispanoamericani in generale e argentini in particolare, è garanzia di qualità.

Buona lettura con Flor Canosa - POLPA - NEO Edizioni. Trad. Giovanni Barone.

giovedì 9 ottobre 2025

Tango a Porto



Tango a Porto è una storia di ricordi, ma anche un sogno. Le due cose non sono incompatibili, né devono apparire contraddittorie.

Tutto si svolge in un'atmosfera onirica. C'è poca chiarezza quanto alla cronologia degli eventi narrati e allo svolgimento dei fatti.

Un professore universitario, appassionato di lettura e amante della scrittura, ormai in là con gli anni, ripensa alla vita trascorsa, rievoca episodi che l'hanno caratterizzata e in qualche modo determinata.

Il passato si insinua di continuo nel presente senza preavviso. I ricordi si ripresentano senza un ordine preciso, sovrapponendosi e accavallandosi cosicché non sempre è facile cogliere con esattezza i riferimenti temporali.

Ci sono tre donne che occupano la mente del protagonista, che è anche l'io narrante. La moglie, negli ultimi anni alle prese con seri problemi di salute. La figlia, che non è mai venuta alla luce ma che è sempre presente. Sofia, una donna che ha conosciuto a Porto, una volta in cui era stato invitato a un convegno in quanto esperto di letteratura portoghese.

In quell'occasione aveva scelto di presentare una tesi su António Lobo Antunes e in particolare sul romanzo A morte de Carlos Gardel (1994).

Nasce cosi, per l'anima 'scrivente' del protagonista, la necessità di trasformare questi soggetti nei personaggi che animeranno le pagine del romanzo che intende scrivere. A volte i personaggi si muovono e agiscono per le strade di Porto, una città che appare in filigrana, senza mai venire nettamente in superficie. Più spesso le azioni si svolgono nella mente del narratore, come è naturale che avvenga quando a prevalere sono i ricordi o i sogni.

La narrazione comincia col tempo presente, in un'atmosfera sospesa, come di attesa, di immobilità, quasi a voler evocare la mancanza di stimoli e quindi di capacità di immaginare. Una mancanza di motivazione ad agire, anche.

Il protagonista ama scrivere e, dopo alcune prove fallimentari di produrre un romanzo, intende rivolgere tutti gli sforzi nel tentativo di raccontarsi apertamente. A tale scopo cerca aiuto nella lettura del romanzo di Lobo Antunes, per trovare l'ispirazione necessaria, anche imitando lo stile dell'autore portoghese. Tutto però rimane confuso, alquanto vago, per niente chiaro.

Questo romanzo è un omaggio alla scrittura e alla sua funzione di fissare dei momenti che altrimenti rischierebbero di scomparire per sempre.

Allo stesso tempo è anche un atto d'amore nei confronti dello stile e del modo di scrivere di António Lobo Antunes.

Antonio Danise - Tango a Porto - Edizioni Qed

mercoledì 27 agosto 2025

Una sola luce blu

 

Una sola luce blu di Sara Cerri è un romanzo scritto sotto forma di lunga lettera che una madre, Gloria, scrive alla figlia, Eva, con l’intento di raccontarle otto anni della sua vita, che non sono, però, solo otto e non sono solo della sua vita perché, il racconto abbraccia inevitabilmente anche gli anni precedenti al 2008, anno in cui comincia questa sorta di diario, e coinvolge anche altre persone, oltre alla mamma e alla figlia.

Leggendo Una sola luce blu ho scoperto con una certa sorpresa che tra quelle pagine ci sono anch’io.

Non sto esagerando. Credetemi, perché sono tante le storie che Cerri ci presenta in questo romanzo. E quando lo leggerete vi troverete senz’altro qualcosa che ha a che fare con la vostra vita, così come è successo anche a me. 

La buona letteratura è questo che fa. Propone qualcosa in cui ciascuno, in modo diverso, può ritrovarsi, partendo dal proprio vissuto. Con la speranza di riuscire ad affrontare, con un strumento in più, quel senso di inquietudine esistenziale che può accadere di dover affrontare. 

In questi casi avere a disposizione un libro come Una sola luce blu aiuta a elaborare un dolore, un dispiacere, una sofferenza e, auspicabilmente, a superarli.

Sara Cerri - Una sola luce blu - CTL Editore

lunedì 25 agosto 2025

NESSUNO di Pako Malara

 


Nessuno, di Pako Malara, è un romanzo costruito partendo da alcune parole chiavi: silenzio, vuoto, buio, assenza, rimorso per qualcosa di non fatto, non dato, non detto, rimpianto, specchio, resistenza, rinascita.

Punti fissi che ricorrono e ritornano, come a disegnare una mappa, per non smarrirsi, per non perdere la strada, per risalire da certi abissi in cui spesso si rischia di precipitare.

Ecco un esempio di dialogo fra due personaggi, un passaggio significativo del testo:

 

«La vita non è un film. Non è un libro. La vita …»

«… fa male», lo interruppe.

«Fa schifo. Ti svuota. Ti massacra. Lo so. Ma forse è proprio per questo che vale la pena di provarci. Per dimostrare che non ci ha distrutto del tutto.»

 

La vita è uno sprofondare, a volte necessario, in un abisso, per poter poi risalire lentamente. È speranza di rinascita.

Ho letto con molta curiosità il romanzo di Pako Malara, dal titolo significativo nonché evocativo: Nessuno.

La storia, nonostante le oltre 300 pagine del libro, è presto detta.

Ma no, non la dico, non è quello che conta, o non solo.

Bisogna leggerlo questo romanzo, pagina dopo pagina. Essere risucchiato dagli eventi. Vivere il dolore che vibra tra le righe, e venirne fuori.

In queste pagine c’è un’attenzione analitica, a tratti persino morbosa, a ogni particolare descritto. Niente viene lasciato al caso. Eppure si tratta di una storia che si potrebbe definire smilza, ancorché densa e importante.

Una delle cose che colpiscono in questo lavoro è l’attenzione quasi maniacale per ogni dettaglio, la perfezione delle descrizioni, che dipingono un quadro che dà precisamente l’idea di quel che accade.

E nonostante questo si ha, allo stesso tempo, l’impressione, la sensazione che non sia stato detto tutto, che ci sia molto altro ancora tra le righe, dei vuoti che ogni lettore potrà colmare a piacimento, perché dalle parole del testo possono nascere e scaturire mille altre storie, se solo si presta attenzione al non detto, al non espresso.

Una scrittura intensa, profonda, densa. Un lavoro di ricerca della parola, non una banale o scontata. Quella giusta, l’unica adatta a definire il concetto espresso, i sentimenti evocati e suscitati.

Una prova di maturità letteraria all’esordio di questo giovane scrittore.

Conosco personalmente Pako Malara ma leggendo Nessuno ho fatto conoscenza con un'altra persona.

È il bello della buona scrittura.

Nessuno è un romanzo necessario, che andava scritto, perché: Nessuno può salvarti da un dolore che non racconti.

Pako Malara - NESSUNO


mercoledì 25 giugno 2025

Tango a Porto: Danise e la critica alla finzione.


Riporto la recensione di Martino Ciano, che ringrazio immensamente, di Tango a Porto, Qed Edizioni, già pubblicata su borderliber.it

Sta tra queste pagine la critica alla finzione, la presa di coscienza che la realtà non può essere davvero raccontata per ciò che è, perché essa è sempre travisata, deformata dal soggetto che ne fa ciò che vuole.

È la tragedia dell’intenzionalità a parlare in “Tango a Porto”, un’opera viscerale con cui Antonio Danise ironizza la natura di questo artefatto di parole, di frasi, di concetti che non si attengono per niente alla mondanità. Persino la sospensione di ogni giudizio viene ridicolizzata, perché è una forzatura, anzi un esercizio di stile. Come fai a togliere del tutto le vibrazioni, i sentimenti, le sensazioni?

Danise imbastisce un dialogo tra sensi. Immagina un professore che si reca in Portogallo, a Porto, per tenere una conferenza sulla letteratura contemporanea del paese iberico. L’argomento del suo intervento sarà lo scrittore António Lobo Antunes, colui che ha usato il passato per raccontare il presente e per delineare in maniera impietosa la decadente natura umana. E proprio lui, che prima di essere scrittore è stato psichiatra, secondo me avrà avuto a che fare con Brentano e con l’intenzionalità: quel “qualcosa” che sta alla base dei nostri atti psichici, che veste l’oggetto del nostro “io”.

Durante questo viaggio, il protagonista incontra Sofia, una donna con cui intreccia una breve relazione e che, anche una volta finita, lui continuerà a frequentare per trarre ispirazione per il suo romanzo. In questo gioco di specchi, l’intera struttura si incrina. Lo scrittore non sa chi sia davvero Sofia. Di sicuro non diventa Musa, ma un’entità che guida i giudizi, le scelte stilistiche, le parole. È uno spirito che si intromette, che detta le regole del gioco. Per liberarsene, l’aspirante scrittore ha un solo modo: abbandonare la stesura del romanzo. Lo farà?

Al di là della trama, l’impalcatura metafisica che sorregge il tutto è estremamente visibile. “Tango a Porto” è certamente un’opera che non naviga per i generi consueti. Mettere in crisi il romanzo, dubitare che possa esserci un rapporto benevolo tra realtà e finzione, sono temi che da sempre affascinano perché aprono a un discorso ancora più ampio: lo spaesamento che soggioga l’uomo e che oggi è la misura attraverso cui si leggono tutte le cose.

Distrutta la rielaborazione di un pensiero edulcorato, che oltre a dare logica alla realtà smorza i conflitti interiori dell’individuo, si mette a repentaglio l’ultima boa di salvezza che l’uomo ha a disposizione. Con questa prova, Danise si pone tra coloro che giocano con la letteratura come certi domatori fanno con i leoni affamati.

Il rischio è che la finzione diventi per il protagonista del libro l’unica realtà accettata e conoscibile. In tale prospettiva “Tango a Porto” è un’opera alienata, che scuote le basi del nostro quieto vivere in un mondo che si mostra per ciò che è: uno spazio addomesticato dalla nostra percezione. Torniamo quindi a una domanda fondamentale che ancora oggi stuzzica la parte inquieta del nostro animo: esiste l’oggetto senza il soggetto?


martedì 10 giugno 2025

Tango a Porto




Grazie a Stefano Ventisette che ha letto Tango a Porto. Ecco cosa ne pensa. 

Ho avuto il piacere, su segnalazione dell’amico Pasquale De Luca, di leggere e partecipare alla presentazione fiorentina, a fine maggio, del libro Tango a Porto (QED 2025) di Antonio Danise. 
Riporto qui le mie sensazioni e impressioni ricevute dall’interessante lettura del testo in questione. 

Si tratta di un romanzo né tradizionale, né scontato, ma dalla struttura evocativa continua e fluttuante, sorretta da una prosa originale con una costante cadenza ritmica che si evolve e si ritrae, si eleva per poi ridiscendere, senza mai tradire l’intento originario dell’autore. 
È difficile imbattersi in un romanzo così concepito e così ben amalgamato; romanzo breve e per questo fruibile in poche ore di lettura, ma che cattura il lettore e lo conduce nei labirinti mentali dell’autore. 
Che poi, rappresentano le congetture quotidiane ed eterne di gran parte degli esseri umani: non c’è forse un flusso di coscienza (almeno per noi occidentali) che ci accompagna quotidianamente? Pensieri talvolta confusi, talaltra troppo sofisticati, ora banali, e dopo filosofici. 
Ma è la colonna sonora interiore che accompagna il nostro peregrinare alla ricerca di quiete e speranza che tardano ad arrivare, lasciandoci troppo spesso in una dimensione di attesa (di che cosa, poi?) che ci catapulta nuovamente nella tragica condizione di errabondi. 
Antonio Danise ha il coraggio, la bravura, con la libertà che si auto concede, di mettere a nudo la sua esperienza di vita letteraria che può anche coincidere con quella reale, ma al lettore poco importa se così è, perché si riconosce nel tormento che emerge pagina dopo pagina, nel rovello interiore che coinvolge e assurge a sfondo della storia narrata e, in parallelo, fatta propria dal lettore. 
Non un’esaltazione dell’ego o del narcisismo, ma rispetto per il lettore, coinvolto direttamente nel resoconto-narrazione. Così, la difficoltà a ricomporre la vita in periodi temporali, stagioni, passaggi, cicli (pag. 19), diventa pensiero comune, da condividere; e una cesura improvvisa nel racconto, insieme a un soprassalto imprevisto (Pag. 20): “Adesso che è tutto finito e si entra in un’altra dimensione”, ci riportano alla necessità di ricominciare, ripartire per un altro pensiero… 
Un autobiografismo portato alle estreme conseguenze, senza mai (o quasi mai) pronunciare la parola “io”. Una trama che è un pretesto, come in Annie Ernaux ne Gli anni. 
Nel momento in cui, come quello attuale, i segreti dovrebbero essere importanti, per gli individui, e la propria interiorità da custodire altrettanto gelosamente, rivelare e rivelarsi è diventato quasi un hobby. Questo principio non vale per gli scrittori, perché hanno il privilegio di rendere pubblica tutta l’interiorità che vogliono per interposta persona. Così sembra fare Danise con il suo Tango a Porto, di cui va sottolineato il coraggio, la temerarietà nello scrivere una storia che si presenta, a mio avviso, come una malcelata autobiografia interiore. Anzi, una autotoanalisi spietata. Con linguaggio sicuro, colto, dal taglio minuzioso. Con l’unica finalità di cesellare e sperimentare la fluidità di cui sopra, permettendosi, Danise, cesure improvvise per evocare un evento importante con una frase breve, lapidaria (Pag. 60), o ancora fughe, “la vera vita è sogno e follia”, “perdersi e ritrovarsi, nulla è definito” (pag. 80)”, portando il lettore sul piano del sogno, della dimenticanza, della seconda o terza vita che la letteratura offre a entrambi: scrittore e lettore, appunto. 
Questa sequenza di piani diversi, utilizzati con padronanza e sapienza, conferiscono, a mio avviso, ancora più forza al romanzo di Antonio Danise, al punto di indurre il lettore a imboccare altre vie interpretative, compresa quella che potrebbe definire il romanzo anche la storia di una nevrosi, dove la voce narrante, senza remore, mette a nudo la propria mente e la propria anima. Anzi, la consapevolezza del raccontare, in forma di confessione, porta Danise a far cadere i freni inibitori, per far conoscere le parti più recondite dell’esistere, del soffrire e, infine, del gioire. 
Una bella, continua alternanza fra sogno e realtà, verità e finzione, furti di identità, ambizioni, cadute, desideri, appagamenti e ritorno ai dubbi di sempre. 
Letteratura e scrittura come salvezza, rifugio che possono anche trasformarsi in nevrosi, paranoia, ossessione. La letteratura, in fondo, non è anche un pretesto per assicurarsi più vite, sicuramente migliori, più soddisfacenti? Per assicurarsi, pure, più vie di fuga, fino a una salvifica uscita di sicurezza?
Riguardo a questo aspetto ho trovato molte affinità con Cabala bianca di Gian Dauli (romanzo del 1944,) dove, certo con prosa più leggera e disincantata, si narra “la giornata di un uomo qualunque che confonde la vita reale con il mondo dei sogni, senza rispettare il naturale alternarsi del sonno e della veglia, mescolando la propria esperienza notturna e diurna…”. Sono i temi a cui accennavo prima, a cui aggiungerei, a sostegno di una ulteriore prova di coraggio dell’autore, il momento in cui Danise (pagina 30) fa precipitare l’autostima dell’io narrante al grado zero, quando lo fa riflettere sul suo “non vivere”… Ma è sempre un filo invisibile, seppur tenace, che sorregge la lunga autoanalisi di Danise, il dispiegarsi dei pensieri, delle fughe mentali, dei sogni, della malattia, dei “Piccoli equivoci senza importanza”. 
Con una incisiva impostazione in forma di poema, piuttosto che di romanzo tradizionale, dove le varie e alterne strutture narrative sorreggono il testo, trattenendolo e liberandolo in quell’area di tregua e di ripresa ossessiva del pensiero che macina parole, ricordi, sprazzi di luce, il buio del dolore, il testo procede col suo ritmo incalzante. 
Insomma, una bella scommessa. Che Antonio Danise ha saputo accettare e vincere con strumenti narrativi ben maneggiati e altrettanto ben offerti al lettore. 

Antonio Danise - Tango a Porto - Qed

giovedì 29 maggio 2025

Tango a Porto

video della presentazione di Tango a Porto https://youtu.be/WW_5jhaBsoI?feature=shared

sabato 10 maggio 2025

Tango a Porto

Grazie a Gianni Barone che ha letto Tango a Porto, edizioni Qed, e ne ha scritto in questi termini.
Antonio Danise, Tango a Porto, Qed 2025.
Conosco almeno una decina di scrittori che apprezzerebbero molto questo breve romanzo di Danise. Uno fra tutti, l'argentino Fernando Bermúdez. E conosco anche tantissimi lettori che ne rimarrebbero estasiati, quei lettori che cercano nei libri interrogativi, riflessioni sui flussi del destino, sul senso della vita, sulle strategie delle trame, sulla dialettica realtà / immaginazione, e soprattutto cercano valore letterario.
"Tango a Porto", oltre a rispondere a precisi canoni della letteratura ( monologo interiore, intertestualità, citazionismo, metanarrazione) è figura simbolica anche di certe funzioni dell'ottica. Il libro è come uno specchio che riflette altri libri, sia quello di Lobo Antunes che fa da spunto alla narrazione, sia un romanzo precedente di Danise, "La signorina Maria", una sorta di interfaccia, con la figura femminile di Sofia di questo romanzo che esisteva già nel precedente nelle ossessioni erotiche che girano nella mente del narratore come un nastro di Moebius. Ma è anche uno specchio che riflette il mero atto di scrivere di Danise, come se l'autore stesse scrivendo su una superficie riflettente e osservasse, staccata da sé, la propria scrittura nell'atto stesso dello scrivere. È chiaro che il flusso mentale si moltiplica per gemmazione, si creano divagazioni ma allo stesso tempo vengono tenute sotto controllo. La scrittura di Danise è come un fiume, spesso ci sono macigni (ossessioni, psicosi, sensi di colpa) che ostacolano il fluire; si creano allora dei flussi laterali che poi si ricompongono in un andare e venire della scrittura, in un allontanarsi dal tema centrale e a un ricongiungersi. Tutto si tiene in questo breve ma denso romanzo, tutto confluisce: libri, autori, personaggi di libri, memorie, storie, altri libri dello stesso autore. Vi troviamo il rimosso che riaffiora, ma ancora non del tutto messo a nudo. Le realtà vengono a volte travisate a seguito di specchi deformanti o di ottiche che non riescono o non vogliono mettere perfettamente a fuoco; c'è un gioco continuo tra verità e finzione, tra realtà e immaginazione. 
Ma il miracolo di Tango a Porto, in questo panorama di iperletterarietà, è che non troveremo  nessuna esibizione, nessun esercizio di stile, nessun freddo né calcolato espediente tecnico. L'abilità, il talento autoriale di Danise, risiede nell'usare la scrittura come un flusso di pensieri che ha precedenti colti nella nostra letteratura novecentesca. La trama, anche se è un pretesto per l'interessante congegno letterario costruito da Danise, è assolutamente accattivante e ricca di richiami per chi ama il Portogallo, la letteratura e i luoghi di quel paese.
"Tango a Porto" è stato senza ombra di dubbio uno dei più stimolanti romanzi che io abbia letto in questa parte dall'anno, e voglio ancora una volta rendere  merito alla casa editrice Qed per le capacità di saper intercettare e proporre ai lettori opere e autori di sicuro valore.

venerdì 9 maggio 2025

Tango a Porto

In occasione dell'uscita del mio nuovo libro, dal titolo Tango a Porto per le edizioni Qed, pubblico una lettura dell'amico Pasquale De Luca.

Finalmente ci siamo, da domani 9 Maggio “Tango a Porto” di Antonio Danise (Qed Edizioni, 2025) sarà in libreria e sugli store online. È un romanzo bellissimo che ho avuto il privilegio di leggere in fase di valutazione per conto dell’editore, cogliendone fin da subito il potenziale e la forza. È un romanzo breve, narrato in prima persona dal protagonista, un uomo di mezza età, in preda a una conclamata crisi esistenziale dovuta alla sua non risolta realizzazione personale e ai problemi di salute della moglie. Esperto di letteratura portoghese, riceve l’invito a tenere una relazione in occasione di un convegno di studi che avrà luogo a Porto. Decide che parlerà del romanzo “A morte de Carlos Gardel” di António Lobo Antunes, autore che predilige.
   Arrivato a Porto, l’incontro con Sofia – la donna che gli affitterà l’alloggio per la settimana del convegno - suscita immediatamente nel protagonista una forte attrazione fisica e mentale. Questi sette giorni sono dominati dalla figura di Sofia, mentre il convegno sulla letteratura portoghese rimane sullo sfondo. Rientrato a casa, il narratore non fa che pensare alla donna portoghese e prova l’intenso desiderio di scrivere un romanzo su di lei, con la convinzione che scrivendone, e solo scrivendone, quell’esperienza sopravviverà. Ma in realtà quello che aumenta e si consolida nel suo animo è la confusione fra il ricordo reale e la reinvenzione dei fatti e delle persone che la sua mente va elaborando, con l’inevitabile conseguenza che il turbamento interiore finisce per ricondurlo, come a chiusura di un percorso circolare, allo stato di infelicità e impotenza esistenziale di cui era prigioniero prima del soggiorno a Porto.
   Sofia è entrata prepotentemente nella testa del protagonista ed è oramai diventata una vera e propria ossessione. Lui avrebbe bisogno di parlare, di sfogarsi, di confidare i suoi problemi esistenziali – la moglie malata, l’incapacità di fare scelte e mettere costanza e tenacia nelle cose – ma non ha nessuno con cui aprirsi. Vorrebbe scrivere in modo organico una storia intorno alla settimana trascorsa a Porto ma non si sente pronto, non ha le idee chiare. Allora si mette a raccontare solo di Sofia, di come l’ha conosciuta, di quello che c’è (o sogna che ci sia) stato fra di loro. E lo fa navigando fra verità e immaginazione, coinvolge nel gioco il lettore e mischia le carte rendendo suggestivamente incerto se stia raccontando la vera storia di quei sette giorni a Porto con Sofia oppure se la stia reinventando. 
   In “A morte de Carlos Gardel”, il romanzo di António Lobo Antunes di cui l’io narrante ha parlato al convegno letterario a Porto, domina il tango perché il protagonista Alvaro è un uomo infelice (abbandonato dalla moglie, non amato dal figlio, si isola dal mondo ed è) ossessionato dalla musica di Carlos Gardel, grande compositore e cantante di tango. A dispetto del titolo, invece, in “Tango a Porto” la musica che domina non è il tango bensì il fado. Non che se ne parli espressamente nel testo, intendiamoci, ma le pagine dalla prima all’ultima trasudano saudade (di cui il fado è l’espressione musicale suprema), quel sentimento difficile da poter definire, ma che sicuramente include in dosi variabili il rimpianto, la malinconia, la nostalgia, il desiderio di ciò che non c’è (più), lo struggimento per l’assenza. Del resto l’io narrante di “Tango a Porto” ad un certo punto evoca apertamente una “atroce saudade che paralizza la mia esistenza quando penso a lei, a Porto, al portoghese, che amavo ascoltare quando giravo per la città!”. Ma non c’è alcuna contrapposizione fra il tango del titolo e il fado che risuona nel testo, perché l’autore riesce a far convivere l’intensa passionalità del tango e la struggente malinconia del fado.
   Quello che maggiormente determina la qualità letteraria di questo pregevole romanzo di Antonio Danise è la cifra stilistica, una scrittura avvolgente, connotata da un monologo interiore accorato, a tratti straripante, alternato a pagine di narrazione più agile e veloce. Uno stile efficace e suggestivo che a momenti si fa vero e proprio flusso di coscienza che scorre come un torrente in piena e la scrittura spalanca al lettore la porta d’accesso ai processi interiori dell’io narrante, denotando una forza introspettiva che rimanda a “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo. Ma è soprattutto a un altro autore che la lettura di “Tango a Porto” mi ha fatto pensare, a Giuseppe Berto e alle poderose pagine de “Il male oscuro”. Non tanto per l’assonanza, a tratti sorprendente, del monologo interiore – che è e resta pur sempre una tecnica di scrittura – e nemmeno per la cauta allusione alla funzione terapeutica della scrittura (“Tango a Porto” non evoca alcuna nevrosi né la “lunga lotta col padre” che segna il capolavoro di Berto), quanto per l’intensità emotiva dell’atmosfera, uno spleen assai ben rappresentato che riesce a stabilire fin dalla prima pagina una relazione empatica con il lettore.
   L’analisi del mondo interiore del protagonista (sogni, ricordi, frustrazioni, rimpianti, rimorsi, sensi di colpa e di inadeguatezza) prevale sulla narrazione di azioni ed eventi, i luoghi e le descrizioni appaiono specchi dei suoi tormenti interiori e questo fa sì che “Tango a Porto” possa a buon diritto essere considerato un romanzo psicologico, di cifra marcatamente intimista.
   Un romanzo che consiglio a tutte/i coloro che amano la buona letteratura.

domenica 30 marzo 2025

Fiquem atentos

 


A breve si danza.

mercoledì 12 febbraio 2025

Se camminare fa troppo rumore

Un romanzo che ho amato come non mi succedeva da un po'. Intanto perché è scritto molto bene, che poi è ciò che più importa in questo campo. 
Non proseguo nella lettura perché voglio sapere come finisce la storia. O non solo. Continuo perché mi piace come scrive Giusi D'Urso, una scrittura a tratti poetica, soprattutto quando ci sono di mezzo i ricordi. 
(A proposito, leggetelo fino alla fine, scoprirete sorprese davvero inaspettate.)
Ho apprezzato, fra altre cose, la gestione della memoria, dei ricordi di un passato più o meno lontano, che si intrecciano di continuo col presente, e con la prospettiva di una svolta nella vita della protagonista che sembra sempre sul punto di arrivare, sotto forma di speranza di un miglioramento delle condizioni di vita, non solo dal punto di vista economico, di una serenità a lungo agognata, di una chiarezza nella propria vita, nelle relazioni con le persone conosciute ma anche con i nuovi incontri. 
È un raccontare, quello di Sofia, la protagonista, senza raccontare, che sembra scaturire spontaneamente al solo lasciarsi andare ai ricordi. 
È una confessione necessaria che si costruisce da sola.
"Perché le storie vanno pur raccontate a qualcuno", e io mi considero fortunato ad aver letto questa storia.
Se camminare fa troppo rumore è scritto molto bene e con una storia che stimola la lettura.
Grazie Giusi. 
Grazie a Il ramo e la foglia per la cura dell'edizione. 
(Ma quanto sono belli i libri di questa casa editrice?)

Giusi D'Urso 
Se camminare fa troppo rumore
Il ramo e la foglia edizioni