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mercoledì 25 giugno 2025

Tango a Porto: Danise e la critica alla finzione.


Riporto la recensione di Martino Ciano, che ringrazio immensamente, di Tango a Porto, Qed Edizioni, già pubblicata su borderliber.it

Sta tra queste pagine la critica alla finzione, la presa di coscienza che la realtà non può essere davvero raccontata per ciò che è, perché essa è sempre travisata, deformata dal soggetto che ne fa ciò che vuole.

È la tragedia dell’intenzionalità a parlare in “Tango a Porto”, un’opera viscerale con cui Antonio Danise ironizza la natura di questo artefatto di parole, di frasi, di concetti che non si attengono per niente alla mondanità. Persino la sospensione di ogni giudizio viene ridicolizzata, perché è una forzatura, anzi un esercizio di stile. Come fai a togliere del tutto le vibrazioni, i sentimenti, le sensazioni?

Danise imbastisce un dialogo tra sensi. Immagina un professore che si reca in Portogallo, a Porto, per tenere una conferenza sulla letteratura contemporanea del paese iberico. L’argomento del suo intervento sarà lo scrittore António Lobo Antunes, colui che ha usato il passato per raccontare il presente e per delineare in maniera impietosa la decadente natura umana. E proprio lui, che prima di essere scrittore è stato psichiatra, secondo me avrà avuto a che fare con Brentano e con l’intenzionalità: quel “qualcosa” che sta alla base dei nostri atti psichici, che veste l’oggetto del nostro “io”.

Durante questo viaggio, il protagonista incontra Sofia, una donna con cui intreccia una breve relazione e che, anche una volta finita, lui continuerà a frequentare per trarre ispirazione per il suo romanzo. In questo gioco di specchi, l’intera struttura si incrina. Lo scrittore non sa chi sia davvero Sofia. Di sicuro non diventa Musa, ma un’entità che guida i giudizi, le scelte stilistiche, le parole. È uno spirito che si intromette, che detta le regole del gioco. Per liberarsene, l’aspirante scrittore ha un solo modo: abbandonare la stesura del romanzo. Lo farà?

Al di là della trama, l’impalcatura metafisica che sorregge il tutto è estremamente visibile. “Tango a Porto” è certamente un’opera che non naviga per i generi consueti. Mettere in crisi il romanzo, dubitare che possa esserci un rapporto benevolo tra realtà e finzione, sono temi che da sempre affascinano perché aprono a un discorso ancora più ampio: lo spaesamento che soggioga l’uomo e che oggi è la misura attraverso cui si leggono tutte le cose.

Distrutta la rielaborazione di un pensiero edulcorato, che oltre a dare logica alla realtà smorza i conflitti interiori dell’individuo, si mette a repentaglio l’ultima boa di salvezza che l’uomo ha a disposizione. Con questa prova, Danise si pone tra coloro che giocano con la letteratura come certi domatori fanno con i leoni affamati.

Il rischio è che la finzione diventi per il protagonista del libro l’unica realtà accettata e conoscibile. In tale prospettiva “Tango a Porto” è un’opera alienata, che scuote le basi del nostro quieto vivere in un mondo che si mostra per ciò che è: uno spazio addomesticato dalla nostra percezione. Torniamo quindi a una domanda fondamentale che ancora oggi stuzzica la parte inquieta del nostro animo: esiste l’oggetto senza il soggetto?


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