Ho avuto il piacere, su segnalazione dell’amico Pasquale De Luca, di leggere e partecipare alla presentazione fiorentina, a fine maggio, del libro Tango a Porto (QED 2025) di Antonio Danise.
Riporto qui le mie sensazioni e impressioni ricevute dall’interessante lettura del testo in questione.
Si tratta di un romanzo né tradizionale, né scontato, ma dalla struttura evocativa continua e fluttuante, sorretta da una prosa originale con una costante cadenza ritmica che si evolve e si ritrae, si eleva per poi ridiscendere, senza mai tradire l’intento originario dell’autore.
È difficile imbattersi
in un romanzo così concepito e così ben amalgamato; romanzo breve e per questo fruibile in poche ore di lettura, ma che cattura il lettore e lo conduce nei labirinti mentali dell’autore.
Che poi, rappresentano le congetture quotidiane ed eterne di gran parte degli esseri umani: non c’è forse un
flusso di coscienza (almeno per noi occidentali) che ci accompagna quotidianamente? Pensieri talvolta confusi, talaltra troppo sofisticati, ora banali, e dopo filosofici.
Ma è la colonna sonora interiore che accompagna il nostro peregrinare alla ricerca di quiete e speranza che tardano ad
arrivare, lasciandoci troppo spesso in una dimensione di attesa (di che cosa, poi?) che ci catapulta nuovamente nella tragica condizione di errabondi.
Antonio Danise ha il coraggio, la bravura, con la libertà che si auto concede, di mettere a nudo la sua esperienza di vita letteraria che può anche
coincidere con quella reale, ma al lettore poco importa se così è, perché si riconosce nel tormento che emerge pagina dopo pagina, nel rovello interiore che coinvolge e assurge a sfondo della storia
narrata e, in parallelo, fatta propria dal lettore.
Non un’esaltazione dell’ego o del narcisismo, ma rispetto per il lettore, coinvolto direttamente nel resoconto-narrazione. Così, la difficoltà a ricomporre la vita in periodi temporali, stagioni,
passaggi, cicli (pag. 19), diventa pensiero comune, da condividere; e una cesura improvvisa nel racconto, insieme a un soprassalto imprevisto (Pag. 20): “Adesso che è tutto finito e si entra in un’altra dimensione”, ci riportano alla necessità di ricominciare, ripartire per un altro pensiero…
Un autobiografismo portato alle estreme conseguenze, senza mai (o quasi mai) pronunciare la parola “io”. Una trama che è un pretesto, come in Annie Ernaux ne Gli anni.
Nel momento in cui, come quello attuale, i segreti dovrebbero essere importanti, per gli individui, e la propria interiorità da custodire altrettanto gelosamente, rivelare e rivelarsi è diventato quasi un hobby. Questo principio non vale per gli scrittori, perché hanno il privilegio di rendere
pubblica tutta l’interiorità che vogliono per interposta persona. Così sembra fare Danise con il suo Tango a Porto, di cui va sottolineato il coraggio, la temerarietà nello scrivere una storia che si presenta, a mio avviso, come una malcelata autobiografia interiore. Anzi, una autotoanalisi spietata.
Con linguaggio sicuro, colto, dal taglio minuzioso. Con l’unica finalità di cesellare e sperimentare la fluidità di cui sopra, permettendosi, Danise, cesure improvvise per evocare un evento importante con una frase breve, lapidaria (Pag. 60), o ancora fughe, “la vera vita è sogno e follia”, “perdersi e ritrovarsi, nulla è definito” (pag. 80)”, portando il lettore sul piano del sogno, della dimenticanza, della seconda o terza vita che la letteratura offre a entrambi: scrittore e lettore, appunto.
Questa sequenza di piani diversi, utilizzati con padronanza e sapienza, conferiscono, a mio avviso, ancora più forza al romanzo di Antonio Danise, al punto di indurre il lettore a imboccare altre vie interpretative, compresa quella che potrebbe definire il romanzo anche la storia di una nevrosi, dove la voce narrante, senza remore, mette a nudo la propria mente e la propria anima.
Anzi, la consapevolezza del raccontare, in forma di confessione, porta Danise a far cadere i freni inibitori, per far conoscere le parti più recondite dell’esistere, del soffrire e, infine, del gioire.
Una bella, continua alternanza fra sogno e realtà, verità e finzione, furti di identità, ambizioni, cadute, desideri, appagamenti e ritorno ai dubbi di sempre.
Letteratura e scrittura come salvezza, rifugio che possono anche trasformarsi in nevrosi, paranoia, ossessione. La letteratura, in fondo, non è anche un pretesto per assicurarsi più vite,
sicuramente migliori, più soddisfacenti? Per assicurarsi, pure, più vie di fuga, fino a una salvifica uscita di sicurezza?
Riguardo a questo aspetto ho trovato molte affinità con Cabala bianca di Gian Dauli (romanzo del 1944,) dove, certo con prosa più leggera e disincantata, si narra “la giornata di un uomo qualunque che confonde la vita reale con il mondo dei sogni, senza rispettare il naturale alternarsi
del sonno e della veglia, mescolando la propria esperienza notturna e diurna…”. Sono i temi a cui accennavo prima, a cui aggiungerei, a sostegno di una ulteriore prova di coraggio dell’autore, il momento in cui Danise (pagina 30) fa precipitare l’autostima dell’io narrante al grado zero, quando lo fa riflettere sul suo “non vivere”… Ma è sempre un filo invisibile, seppur tenace, che sorregge la lunga autoanalisi di Danise, il dispiegarsi dei pensieri, delle fughe mentali, dei sogni, della malattia,
dei “Piccoli equivoci senza importanza”.
Con una incisiva impostazione in forma di poema, piuttosto che di romanzo tradizionale, dove le varie e alterne strutture narrative sorreggono il testo, trattenendolo e liberandolo in quell’area di
tregua e di ripresa ossessiva del pensiero che macina parole, ricordi, sprazzi di luce, il buio del dolore, il testo procede col suo ritmo incalzante.
Insomma, una bella scommessa. Che Antonio Danise ha saputo accettare e vincere con strumenti narrativi ben maneggiati e altrettanto ben offerti al lettore.
Antonio Danise - Tango a Porto - Qed
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