Detesto l'intreccio
Trovo disgustosa la letteratura che ostenta un plot annodato.
Se provo a inserire una cosa del genere nei miei racconti,
ne ho spavento e lascio morire il tutto.
(P. Handke)
Il nulla presuppone il vuoto. Due concetti che vanno di pari passo. Non riuscirei a scinderli. Se penso a uno mi viene in mente l’altro. C’è qualche teoria che può smentire questo assunto?
Ancora una volta alle prese con questo autore. Non so bene, a dire il vero, perché continuo a leggerlo. Cerco, impresa ardua, una storia tra le pagine dei suoi romanzi. Non perché sia interessato alle storie, ma quasi per una sfida. Vince sempre lui, perché difficilmente riesco a trovarne, o forse ci sono e non sono in grado di individuarle. Ci sono molte descrizioni, questo sì, certi suoi libri sono fatti solo di dettagli, di analisi minuziose dei paesaggi, particolari che solitamente appaiono privi di significato. Non per questo autore.
Al principio era il nulla. Più tardi i pensieri hanno cominciato a far sentire la loro influenza. E con essi i ricordi. Di qualcosa prima del principio. Solo che non sapevo che quello non fosse il principio. Tutto si è rivelato successivamente. Non saprei dire a quando risale il principio. Il mio primo principio.
Le storie sono molto lente, per consentire al narratore l’osservazione attenta e scrupolosa dello scenario. Non ci sono scatti, tutto procede con una lentezza a volte esasperante. Chi ha fretta metta da parte i suoi libri, anzi, non li compri proprio. La lettura è meditazione, per questo autore, un esercizio di estrema pazienza.
Il vuoto è inutilità, anche? E il nulla? Ecco un altro concetto da approfondire. Ne avrò per un bel po’. Potrei non finire mai, mai chiudere la partita, mai la parola definitiva. È un mestiere difficile quello dello scrittore. Sembra di avere tutto a portata di mano, ma è solo finzione. O forse illusione.
Le parole dell’illusione, ecco cosa vado cercando. Non mi ero reso conto nei miei sforzi quotidiani, che avevano la loro origine in momenti lontani. Cose di cui non ho ricordo, tanto erano lontani. E quelle parole, di chi erano? Poteva essere chiunque ad averle pronunciate. Alla sera arrivo con la testa pesante. Nel finto silenzio si carica di contorni, o dintorni, di cui non so distinguere la provenienza. Diventa una testa oppressa. Le voci si sovrappongono, formano un caos compatto. Lì dentro cerco di resistere. Questa storia può avere diverse parole. Spetta a me scegliere quelle giuste. Ma c’è un modo giusto per raccontare una storia? Il dubbio è legittimo. Io ho il mio punto di vista. Fin quando ho il dominio sulle parole, fin quando ho il dominio delle parole, o il potere, fin quando riuscirò a scrivere, e la mente non travisa, fin quando la testa mi accompagna, fin quando ho le idee chiare, o forse no, meglio non averle chiare, meglio lasciarsi dei margini di approssimazione, o di miglioramento, ma possono mai migliorare le parole? Non è una malattia, da cui si può guarire, fin quando ce la farò a vivere così, a parlare a vuoto, come a vuoto, quasi a vuoto, perché qualcosa mi sembra che possa fare, non chiaramente, ma è un primo passo, non so quanto lunga potrà essere la strada, fin quando riuscirò a leggere, a capire quello che leggo, ma non è detto, forse solo illusione, ecco di nuovo questa sensazione infelice, riuscirò a disfarmene un giorno? Tutto questo potrei raccontarlo a qualcuno, una confessione, una seduta terapeutica, la lettura dell’anima, dell’interno, mi accontenterei di saper leggere i miei pensieri, o al limite anche la mano, come fosse un gioco.
Qualcuno deve averne già parlato. Non dovrei perdere tempo. Ma non è un perdere tempo. Non so chiarire questo concetto, non so esprimerlo con parole comprensibili. È per questo che mi sforzo ogni giorno di scrivere. La speranza è non dico una risposta chiara ma almeno qualcosa che vi si avvicini. Una gratificazione, anche piccola, di tanto in tanto. Da cosa potrebbe arrivare? Sto raccogliendo materiale. Si accumulano pensieri che annoto fiducioso, con pazienza. Quando arriverà il momento, non so però come farò a capirlo, forse un allarme scatterà dentro me. Un tic incontrollabile, uno sfiato incontenibile, quando irrefrenabile si paleserà un sintomo, quando non riuscirò più a leggere, quando questa fila infinita finalmente finirà, quando l’esaurimento si esaurirà, quando non ce la farò più ad aspettare, non so cosa, però, ma ho buoni motivi per credere che in qualche modo me ne renderò conto, quando il cerchio si chiuderà, come spesso avviene, qualcosa che mi avvolgerà, come una cappa, o qualcosa che mi proteggerà, sarebbe preferibile, ma è di incertezze che è fatto il mondo, vado avanti senza una guida, salvo le parole che incontro, ovunque, e cosa resterà di me? In quel mondo c’è di tutto, cioè, non manca niente, assolutamente niente. Non è una protezione, per me. È un perdermi, senza confini. Certo, potrei provare a ritrovarmi in qualche pagina, un breve accenno ai miei dolori, i buchi in testa, i vermi dentro, il vuoto, ancora una volta il vuoto, ma quello come faccio a nasconderlo? C’è, è visibile, non si può simulare, e non è nemmeno il peggiore dei mali, ci sono gli anni che restano, è ciò che mi preoccupa, ogni giorno di più, non che ci pensi sempre ma è che mi si avventano contro e non so come affrontarli, se pure c’è un modo. Farei bene a non pensarci affatto, invece. Quei giorni, quegli anni, cosa me ne importa? Così. Come se niente fosse. E invece, sempre a cercare un motivo.
La cappa si restringe sempre più. Il prurito si impossessa del corpo. Le parole non bastano. Come uscirne? Lo sfiato dall’ano non arriva a liberarmi da tutti i mali. Servono rimedi più efficaci.
Questo inverno, questo mese, dicembre, l’attesa della fine dell’anno, dell’arrivo del nuovo, sono fasi vissute tante volte, ormai. Allo stesso modo. Non potrei dire niente di nuovo. Non è da qui che dovrei partire. Uno scenario disincantato potrebbe bastare? Se solo avessi un riferimento preciso! Un luogo dove vivere, ecco. Tolto il superfluo. Ci sono giorni in cui tutto appare superfluo. Sarà adeguato questo termine? A cosa? A rappresentare la situazione. Ma qualsiasi situazione non è altro che semplice invenzione. O anche non semplice, non è questo il punto. Però dire dicembre è già un buon punto di partenza. Non importa che non si scorga ancora la destinazione finale. Ho mosso i primi passi, mi sento come uno che si è avviato lungo un percorso. Non chiedetemi dove sono diretto, potrebbero sorgere in me dei problemi, correrei il rischio di bloccarmi, ogni possibilità di ripartenza definitivamente compromessa. Non voglio sentire voci, nessun consiglio. Sono un viaggiatore che ama sognare. Certo non è facile sottrarsi a questa volta che avvolge. O era una cappa? L’introduzione di un nuovo concetto mi inibisce il proseguimento. Stavo così bene prima.
La pelle del corpo si sfalda. Il corpo, cioè. Il freddo di questo dicembre non preserva. Sto provando a coinvolgere il tempo in questa impresa. Dovrà pur scorrere in qualche modo. Dovrà arrivare l’anno nuovo, carico di prospettive. E se non ci sono vado avanti lo stesso, se pure è proseguire questa vergognosa fissità. Come potrei qualificarla altrimenti?
Mi chiedo a chi mi rivolgo nei sogni, ma anche adesso, a chi sto parlando? Non mi piace riferirmi al soggetto che scrive, vorrei affrancarmi almeno quando dormo, ma anche da sveglio. Sembra che abbia in mente solo un pensiero, e forse è anche così. Ma se comincio ad andare qualcosa potrebbe nascere. Un noioso epistolario tra me e me stesso. Se avrò tempo mi piacerebbe leggerlo. Intanto scrivo.
Il cielo si è fatto scuro, come se prima fosse una giornata piena di luce. Sì, doveva esserci il sole, un sole di dicembre. Cercavo il dio del sole. Gli avrei chiesto di splendere più forte, di caricare le giornate di più luce, renderle luminose, per poter tenere gli occhi aperti più a lungo. Non che fossi stanco di dormire, e di sognare, ma è grazie all’intreccio tra il chiaro e il buio che riesco a vivere meglio e trovare le parole più adatte. Adatte a cosa? A raccogliere gli elementi per descrivere un’esperienza avvolgente, di cui ho sempre più bisogno, e coinvolgente anche.
Drizzo le antenne, si dice così, per avvertire i sibili, il rumore del tempo, cercando di distinguere e isolare note che possano servirmi. Affino anche l’olfatto. Mi sto esercitando da un po’, senza darlo a vedere. Preferisco stare sulle mie, non svelarmi, solo così potrò avere qualche speranza di afferrare il vero, o qualcosa di molto simile, perché non è che sia importante cogliere la verità nell’osservazione, o nella percezione. Ci vuole qualcosa che mi dia una scossa. Che mi svegli e che mi tenga sveglio, anche quando sogno. Oggi, ad esempio, ho incontrato la dottoressa Ribbegnini, lavora presso l’organizzazione mondiale del commercio, ma non è che sappia cosa farmene di questa conoscenza. È una signora di una certa età, ma mi sfugge il senso della sua presenza nei miei sogni. Potrei tranquillamente farne a meno. Ho vissuto anni, decenni, senza sapere della sua esistenza, anche se, comunque, non è che siano stati anni, decenni, felici, o interessanti. Con lei non sarebbe cambiato molto.
L’inverno è un letargo continuo. Non so se augurarmi una lunga durata. Perché ci sono momenti in cui sogno uno stacco, un distacco, un isolamento senza tregua. Non dura molto questo desiderio e probabilmente è il frutto di disaffezioni momentanee alla vita. Poi mi riprendo. Ma è in quei frangenti che più riesco a trovare l’ispirazione, come quando mi lascio trasportare dalle prime ondate di sonno, non solo di notte. Convivono in me due o più mondi. Nel tentativo di posizionarmi ricavo la spinta necessaria per seguitare, per seguire una traccia, inizialmente confusa ma che va schiarendosi a misura che mi assopisco e come niente mi ritrovo in un sonno profondo, ma la storia prosegue anche in quei paraggi. Al risveglio distillo poche frasi ma sufficienti a riportare l’autostima a una soglia accettabile. Solo che dura poco. Ma è già qualcosa.
Se penso che potrei raccontare la vita come una lunga camminata sarei ancora ai primi vagiti. Seguendo il ritmo di questa lettura, cioè. Ogni anno un romanzo, o un diario. Oppure no, ogni mese, ogni giorno, ogni momento. E chi sarebbe interessato a seguire le mie divagazioni? Ma non devono interessarmi gli interessi altrui, mi dico di continuo, come per giustificare un’incapacità a far incuriosire il mondo alle mie vicissitudini, più o meno interessanti.
Rinuncerei subito, se pure fossi già in grado di scrivere, per palese inadeguatezza a rappresentare non dico il mondo, per me ancora da scoprire, ma anche soltanto una specola da cui poter osservare la zolla di terra su cui poggiavo i piedi, nemmeno un metro quadrato, se può servire a dare un calcolo approssimativo della base d’appoggio del gattonamento. A cosa, poi? A calcolare piuttosto il vapore che da lì emanava, nelle mattinate invernali, tutt’al più.
Tutto è lecito in questo mondo, mi dissi, facendomi forte del mio ruolo di creatore, ancorché poco prolifico, oltre che di creatura che però non riconosce una divinità soprannaturale. Ma questo forse si era capito, e non c’era bisogno di sottolinearlo. Ma tutto fa, non intendo affatto tornare sui mie passi.
Quest'uomo è capace di vedere tutto, anche dove non c'è niente, o poco. Mi ricordai di Veronica. Non saprei dire perché. Potrei indagare, ma ormai era con me. L'avevo invitata a trascorrere alcuni giorni a casa mia, dopo la morte di mia moglie. Non subito, però. Lasciai passare qualche settimana, alcuni mesi. Quando mi sembrò il momento giusto la chiamai. Accettò senza indugi. Non me l'aspettavo, se devo essere sincero. La ospitai con l'intento di farci compagnia a vicenda. È brutto morire di solitudine.
Non posso darti altro che un posto dove dormire, il mio avviso, quando sembrò disposta a raggiungermi. Non volevo suscitare in lei illusioni a cui non avrei potuto o saputo dare un seguito, o un credito. Però, ti puoi fidare di me, fu la conclusione della presentazione. Non so come la prese.
Quest'uomo non ha bisogno di cadere da cavallo. Ha cellule, molecole, atomi, neutrini infissi negli occhi. È dappertutto e in ogni tempo. Anch'egli si fa guidare da Virgilio. Divinità non rende.
Non so che farmene di Veronica. Quanto a lei, si appropriasse pure della mia casa. Ormai sto per finire. Non ho interesse in niente, più. Salvo ripensamenti dell'ultima ora, ma in tal caso non avrei problemi a ritornare, e lei, lo so, col suo spirito misericordioso e caritatevole, mi accoglierebbe come il figliol prodigo.
Nessun commento:
Posta un commento