Per molto tempo, ho avuto una relazione con una ragazza
molto più giovane di me che una volta si sarebbe definita epistolare. Oggi si
fa uso di sms, di mail, di chat, sì, insomma, di quei mezzi tecnologici che,
anche se con un po’ di reticenza, peraltro del tutto ingiustificata, alla fine comunque
ho imparato ad usare.
Per lunghi mesi ci siamo scambiati messaggi appaganti,
vivendo a distanza una intensa passione d’amore, fatta di sdolcinatezze, di
smancerie, di pensieri gioiosi e di tutte le melensaggini tipiche di un
sentimento che poteva essere solo immaginato, senza tuttavia essere
sperimentato di persona.
È andata avanti così per un bel po’. Quando mi è venuta l’idea
di proporle che la cosa poteva essere trasferita su un piano di realtà, con un
incontro in un luogo esistente non solo in una dimensione immaginaria ma ad
esempio in una città reale, la mia, la sua, un’altra, ecco che sono iniziati i
problemi.
Ha obiettato piuttosto convinta che il nostro amore aveva
senso e poteva funzionare solo così come era nato e come stava continuando ad
esistere. Che incontrarsi, vedersi, sfiorarsi, baciarsi, fare l’amore,
realizzare cioè tutto quello che avevamo fatto nel mondo virtuale, come fosse
una cosa del tutto naturale, ecco, tutto ciò avrebbe spezzato quella magia,
quella sorta di incantesimo che si era venuto a creare fra noi due, avrebbe
reso reale, fatalmente compromettendolo, l’amore che eravamo riusciti a creare.
Io a questa cosa qui non è che ci credevo tanto, non ero per
nulla convinto di questa giustificazione, non la capivo, e ripercorrendo
mentalmente la storia vissuta mi sembrava di intuire che tutto quello che c’era
stato altro non era se non la rappresentazione di una tragicommedia in cui ero
rimasto coinvolto senza minimamente avvedermene. Ero diventato, eravamo diventati
entrambi, dei personaggi di una fantasia in cui non era chiara la vera identità
di chi parlava, di chi usava la parola io. Non era definito il reale statuto di
chi pronunciava di volta in volta quel pronome, quando esprimeva un affetto,
quando comunicava quell’amore, che col tempo si era trasformato in una specie
di malia che rendeva confuso il momento che capitava di vivere.
L’io della realtà si confondeva con quello della finzione.
L’ho capito solo a cose fatte, ed è stato traumatico sbattere contro il muro
costituito dalla presa di coscienza che ne è seguita.
Ancora oggi faccio fatica a riprendermi, a capire chi è o
chi rappresenta quell’io che si manifesta spontaneamente quando scrivo, quando
mi capita di rivolgermi a qualcuno. Mi sembra di aver perso il senso del mondo.
Non so.
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