Anch'io ti amo. E anch'io ti odio. Forse comincio a capire.
Sono quello che ho scritto. E anche quello che ho letto.
Mi sento tirato in ballo di continuo. Se mi piace la vita?
Se ho una famiglia? Un lavoro? Se sono felice? Ma è davvero a me che ti stai rivolgendo?
Potrei sentirmi coinvolto fino in fondo. Sento di precipitare in un baratro da
cui forse non uscirò mai. Ho le vertigini, anche se non ne soffro.
A volte mi prende un istinto di mollare tutto, riporre il
libro sul ripiano più alto della libreria, per non ritrovarmelo più davanti
agli occhi. Perché continuare? Ma poi, no, devo farcela, anche a costo di non
capire molto. È questo il senso della lettura? Un sacrificio continuo? Non
dovrebbe essere, piuttosto, un piacere? Più avanti ci sarà la chiave che mi
consentirà di valutare meglio ciò che sto leggendo, e quando ricomincerò
dall'inizio sarà un’altra storia. La prima volta è una pena necessaria per
poter godere in seguito, nell'approccio seguente. È la mia versione dei fatti.
Le storie sono fatte a pezzi, qualcosa riesce a staccarsi
dall'unico grande ricordo integrato, emerge, viene alla luce, è un parto
difficile, ma è ciò che serve. Altrimenti, solo buio.
Io non dovevo essere niente, cioè, non sapevo di dover
essere qualcosa, o qualcuno. Era così la mia vita. Quest’ignoranza col passare
degli anni si è un po’ mitigata, ma in certi momenti mi accompagna ancora. È
una dura battaglia per la sopravvivenza.
Non dovevo piacere a nessuno. Tanto meno a me stesso. Né
trucco, né capelli, né smalto, né seno, niente di cui interessarmi. Oggi è
troppo tardi per recuperare.
Io ti leggo, ma non so se è lettura questo passare gli occhi
sulle pagine del libro, pronunciando anche ad alta voce le parole, che non mi
restituiscono alcun significato, che non comunicano altro se non i miei
fantasmi che si presentano a chiedermi un conto che non so saldare. Non sono
del tutto sicuro che era questo che ti aspettavi da un lettore.
Confesso, non è stato semplice. Ho come la sensazione di
aver frequentato una persona, una donna, per un periodo di tempo anche
abbastanza lungo, e di averla conosciuta solo vagamente. Me ne sono fatta
un’idea confusa, forse perché non ho prestato la dovuta attenzione ai
particolari, distratto dalle apparenze, o forse dalle appariscenze provocanti e
a volte persino irritanti. Avrò occasione di ricredermi, semmai.
Forse questo romanzo, se così si può definire, è dedicato
anche a me. Però vorrei sbagliarmi. Ma, dimenticavo, non è un romanzo. È un
viaggio, dentro i meandri di una mente che non so definire.
Dovrò fare così. Una linea da seguire. Dovrò interrompermi
quando non so come continuare. Lasciare a metà una frase, anche, o incompleto
il tentativo di esprimere un concetto.
Mi stai scrivendo? Non mi sento scritto. O non so
immaginarmi così. Eppure è un’idea affascinante. Spesso mi sono perso anch'io rincorrendo
simili progetti, senza capire, tuttavia, se ci sia mai riuscito. A realizzarli,
intendo. Sono rimasti là, alla mercé di eventuali studiosi interessati ad
approfondire ed analizzare il senso dei miei scritti. Così mi illudo. E anche
questo andrà ad ingrossare quelle fila. Perduto. Parole al vento.
Io, questa tipa, non è che mi sta andando proprio giù. Cioè,
continuo a combattere con certi pregiudizi di cui non so individuare l’origine.
O con la mia ignoranza.
Mi sentirei di scrivere tante cose. Anche di quello che
vorrei fare con lei. Qualcosa però, qualcosa che non conosco, mi trattiene.
Cioè, ogni volta mi fa interrompere.
Vorrei, ad esempio, pronunciare il suo nome a voce alta. Il
nome Ilaria. Per vedere l’effetto che fa. E poi, sì, vorrei portarmela a letto. Sto pensando a lei,
ovviamente, non a qualcuno dei personaggi del suo romanzo, peraltro piuttosto
fumosi. Anche in questo caso per vedere l’effetto che fa.
Mi sono fatto l’idea che così potrei capire qualcosa in più
di quello che ha scritto. O anche soltanto qualcosa. Ma forse sbaglio. Cioè,
non c’è un fondamento scientifico in questi pensieri, sempre che la scienza
abbia un qualche valore.
Non vorrei sembrare irriverente nei suoi confronti, ma la
franchezza non è una mia dote, non qualcosa che scaturisce spontanea, ed
allora, quando mi passa un’idea per la testa, prendo subito nota, a costo di apparire
offensivo, villano, impertinente o che so io e la lascio da parte per il
momento opportuno.
Sono davvero libero di scegliere? E se sì, fino a che punto?
Non vorrei che si scambiasse un’eventuale illusione di libertà con un qualche obbligo
a cui non riesco a non soggiacere. Un’imposizione di cui non sono in grado di
individuare l’artefice. Si potrebbe definire libertà, questa? Se non riesco a
sottrarmi alle sue frasi? Cioè, a farne a meno, come fossero la linfa che mi
mantiene in vita? Sento di non avere scelta, altra scelta che proseguire. Un
giorno tutto ritornerà. Tutto più chiaro.
Non è stato facile. Il testo che ho appena finito di leggere
non è un romanzo. Non volevo crederci. Pensavo fossero le solite parole di
circostanza, di quelle che si mettono all'inizio per ingannare il lettore, per
incuriosirlo e stimolarlo, per indurlo, cioè, a cominciare a leggere. Pensare che
era stato detto chiaro e tondo. Stupido io a non dar credito fin da subito ad
una verità nuda e cruda, e a voler trovare chissà cosa dentro quelle prime
frasi.
E tuttavia, se nel corso di questa relazione, sì, insomma,
di questo scritto, avessi necessità di fare riferimento al testo a cui sono
ormai praticamente incollato, non esiterei un attimo a chiamarlo romanzo. Così,
ad esempio, questo romanzo è un’ossessione.
Mi appello o, forse, mi aggrappo alle residue forze che mi
rimangono. Penso che mi capirà. Più di quanto io non capisca le sue parole,
esplicitate in forme poco chiare o comunque non immediatamente comprensibili. Non
a me, almeno.
Ritrovo ancora l’altalena, quel ragazzo, la pineta, immagini
lontane, nel tempo e nello spazio. Primitive, anche, come elementi di una
mitologia più che primordiale, che sembra abbiano lasciato segni inestinguibili.
Vorrei interloquire con i tuoi pensieri, come se ne fossi a
conoscenza. Immaginarti mentre mi scrivi. Toccarti mentre mi stai di fronte.
Solo per il gusto di sapere che ci sei e per apprezzare l’effetto che fa.
Riprenditi pure il corpo ma lasciami almeno una speranza. Di
poter entrare nei tuoi pensieri. Capire quello che sei. Imparare a vivere. Ad
amare, forse. Mi disturbano i tuoi disturbi, i messaggi che non so cogliere,
non ho ben capito se per mia incapacità o perché ti stai prendendo gioco di me,
un burattino che rischia di finire strangolato dai fili che con perizia ed
abilità riesci a tirare senza darlo troppo a vedere.
È la tenzone di cui ho già parlato nella vita precedente,
nella prima lettura. Quella che mi ha, non so se maleficamente, introdotto a
te.
Ritrovo anche l’Oracolo, e poi Lei. Mi sembra già di far
parte di questa famiglia, che arriva da lontano. Ma non mi va di parlare dei
miei trascorsi, di quando giravo con le tette al vento. Ho preso a prestito le
parole del poeta solo per dire che ciascuno ha avuto un modo proprio di
valicare i confini prestabiliti, comprensivi degli effetti più o meno
indesiderati.
Sono arrivato a te senza essermi mai domandato cosa sarei
stato se non avessi sprecato, ma il termine è un po’ forte, quegli anni di vita
così. E non riesco a chiedermelo ancora oggi. Non so se ho fatto bene, ma sento
che prima o poi arriverà il giorno in cui dovrò fare i conti con quel passato.
Questi tuoi disturbi accelerano il processo, ne sono certo e, del resto, man
mano che passano gli anni, quel momento si approssima sempre più e non vorrei
essere colto di sorpresa senza prima aver scandagliato i segreti dell’abisso in
cui sono stato relegato da forze a me estranee, ignote e che, forse, vorrei
poter riconoscere grazie proprio al tuo romanzo, un giorno scoprirò. Allora
sarà tutto più semplice.
Ritorno a casa dal lavoro con una gran voglia di ritrovarti.
Il libro sul tavolino al lato del divano. Riprendo a leggere. Non da un punto
preciso. Non cioè da dove avevo messo il segnalibro che marcava il punto in cui
avevo interrotto la lettura. I pensieri non hanno un prima e un dopo. Tocca a
me ricostruire un percorso. È con un piacere quasi infantile che mi sottopongo
a questo gioco, a questo scherzo che sembra infruttuoso. O a questa sfida che
affatica. Dal piacere al dolore, o viceversa, è un attimo.
Sono un altro quando leggo. Provo ad immedesimarmi nei
personaggi, divento un abitante dei luoghi descritti, godo della compagnia di
sconosciuti. Non provo vergogna a posare nudo di fronte ad una donna mai vista
prima, né imbarazzo a farci l’amore.
Questo romanzo non mi apre le porte di un nuovo mondo. Non
perché non sia nuovo. È che non lo so, perché è un accesso difficile, angusto,
quello attraverso cui devo passare. Le vie sono scivolose, i marciapiedi
viscidi, l’avanzare stento. Non so dove riuscirò ad arrivare procedendo ad
occhi chiusi. Non sarai soddisfatta di ciò che vado dicendo. Le parole
risultano ambigue, piene di incognite. Ma forse tu ti ci ritrovi.
Questo romanzo non è un romanzo. Basterebbe che credessi a
questa dichiarazione per arrestarmi qui e non proseguire oltre. Né a leggere né
a scrivere. Del resto, non si può scrivere niente del niente. Chissà cosa ti
aspettavi. Chissà cosa mi aspettavo. Parole. Eppure, forse scriverò tutta la
notte. Non voglio che svaniscano presto gli effetti dei momenti, stavo per dire
tormenti, trascorsi insieme a te. Attraverso i luoghi dei tuoi viaggi, mi
sembra di vedere il mondo da una distanza che non riuscirò mai a percorrere.
Dall'alto tutto appare diverso. Dall'alto dei miei anni. Non
ho molta fiducia che possa riuscire a capirci qualcosa. Almeno qualcosa. Tanto
meno i disturbi di donna, che tu lo sia o meno. Ogni frase è un percorso in
salita, vorrei raggiungere la vetta e respirare l’aria pulita, inebriarmi delle
atmosfere rarefatte del tuo pensiero. Vedere tutto più chiaro, leggerti negli
occhi, abbracciarti in un silenzio irreale. Anch'io vorrei liberarmi del mondo
che mi circonda, non essere più niente.
Questa lettura è una nuova lettura, di qualcosa che non ho
mai letto. Questo romanzo è un altro romanzo.
Leggo, ma la frase appena letta mi sfugge, scompare
dissolvendosi. A nulla serve ricominciare se non sono in grado di entrare nei
tuoi pensieri. Mi verrebbe da chiederti un consiglio. Voglio vivere. Sto
affogando nell'aridità. Sono quasi affondato.
Questa copertina d’altri tempi! Chi era chiuso dentro quella
gabbia è riuscito a liberarsi. Non appare evidente come abbia fatto. Importa
poco saperlo, tanto, il messaggio è chiaro.
(continua)
Ilaria Palomba
DISTURBI DI LUMINOSITÀ
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