Lettori fissi

venerdì 22 marzo 2019

Mafaldina - 1

Sarei felice se venissi a vivere in questa città. 
Sapere che potrei vederti, parlare con te, chiacchierare delle tante cose che ci uniscono, che condividiamo.
Poterti toccare, capire finalmente come sei e non perché me ne sono fatta un’idea vedendoti in una foto, o perché ho ascoltato qualche volta la tua voce, o le parole che hai pronunciato.
Sono curioso di sapere cosa farei con te. Tu cosa faresti con me. Dopo tutto quello che ci siamo detti in questi anni.
Non sarebbe necessario che ti inviassi ogni giorno un raggio di sole, anche se nel luogo in cui abiti non hai bisogno del mio sole. Forse, però, era un gesto che per un po’ ti riempiva del mio calore, almeno il tempo di ricevere il messaggio, il tempo di un sorriso.
Sarei felice di assaggiare la tua pasta con i ceci. O i tuoi ceci con la pasta, le mafaldine.
Mi piacerebbe chiamarti Mafaldina da oggi in avanti. È un bel nome, ha un che di ondoso, di mare, ho tanto bisogno di mare, di arioso, anche. Ci sta bene con i tuoi riccioli, quando li accarezzo, cioè, quando immagino di passare le mani dentro quelle onde mi sembra di vedere l’orlo frastagliato della pasta e quando, poi, la mangio non posso non pensare a te. Avvicino la forchetta alle labbra e mi viene voglia di darti un bacio, e così la cena assume tutto un altro sapore. 
Ah, questo sì che è mangiare! Stasera mi sazierò con i tuoi baci. Andrò a letto contento e ti sognerò, nuotando fra le tue onde, immergendomi dentro i tuoi marosi.
Non c’è niente da fare, non riesco proprio a strappargliela una foto almeno un po’ osé. Quando si impunta non c’è verso di farle cambiare idea. A parole, cioè con i messaggi, dice di amarmi, di volermi bene, mi invita a fare la doccia insieme, mi manda anche delle foto di lei che si riprende allo specchio, anche quello stile mafaldina. Mi fa vedere l’ultimo paio di stivaletti, appena comprati, gli anelli, i libri, ma quando si tratta di scoprire qualche centimetro di pelle in più del lecito, di quello che è il suo livello di lecito, che però non corrisponde mai con il mio, ecco che arrivano i problemi: e non ho voglia di fare di quelle foto; e per foto proprio non mi va. Cose così. 
Cosa dovrei pensare, allora? Che se un giorno dovessimo incontrarci e vederci di persona sarebbe prontissima a spogliarsi, a darsi tutta a me, a farsi vedere completamente nuda? No, a questo non ci posso proprio credere. 
Su questo punto, sul fatto che io desideri una sua foto, non dico nuda del tutto, ma almeno qualche particolare, un seno che sfugge distrattamente da una camicetta, le mutandine nere che si toglie prima di entrare nel box doccia, su questo non riusciamo a trovare un’intesa. Lei è castissima da questo punto di vista e, a dire il vero, almeno stando a quello che dice, anche da altri punti di vista, casta ed illibata. Ma non so se crederci veramente.
Quando riuscirà a recuperare tutto il tempo perduto? Me lo chiedo spesso, ma del resto, forse questa domanda dovrei farmela anch’io, cioè, qualcosa dovrei recuperare anch’io. Ma ormai non è più tempo, penso sia finita qui. E, quel che è peggio, lo penso veramente.
Ma non so se sia esattamente perdere tempo quello che trascorro smanettando col cellulare per mendicare una foto un po’ piccante, dove lei mi possa mostrare qualche sprazzo di corpo nudo, allorché mi manda qualche piccola icona con sorrisi o baci, o anche un cuore rosso grande e pulsante. 
In fondo, per questa ragazzotta di provincia tutto questo può rappresentare anche un divertimento ma io non sempre ho voglia di giocare, vorrei passare ai fatti e se proprio non è possibile, se continua a tirarla per le lunghe, beh, penso proprio che la cosa migliore sia chiuderla qua, alla mia età non posso star dietro alle bizze di una ragazzina. Sono un uomo d’azione, sì, vorrei agire, ma presto, subito. Non so quanto ancora sarò in grado di resistere. O di esistere.
Non so se è corretto usare il termine “bacchettona” per indicare il suo carattere, il suo essere. Forse si addice di più alla sua persona dell’attributo “casta” o del suo superlativo, o anche dell’erudito e persino un po’ snob, “illibata”.
Comunque la si voglia definire in realtà appare come una donna fuori dal tempo, Con queste premesse non ho motivo di dubitare quando, quasi confidandomi un segreto, mi svela che ha voglia di fare l’amore. 
Sia pur con una certa ritrosia, con un senso di riservato pudore, mi ha voluto confessare questo suo desiderio che io, tuttavia, non posso assecondare. Non vedo come potrei nelle condizioni in cui mi trovo, in cui ci troviamo.
Nella sua voglia di amarmi si prestava facilmente ad una sorta di interrogatorio. Un gioco del tipo, fammi tutte le domande che vuoi. Ed io, non me lo facevo ripetere due volte e cominciavo a pensare a cosa mi incuriosiva di più sapere di lei, della sua vita, di come era fatta, di come volevo che fosse. O di come lei voleva che fosse. Cercavo così di pilotare le richieste, ma anche di farmi guidare dalle sue risposte che, evidentemente, aveva bisogno di darmi. 
Non ci voleva un indovino per capire che aveva un enorme desiderio di confessarsi con qualcuno, uno in cui riponeva una qualche fiducia e chissà se, rivolgendosi a me, in definitiva, era ben riposta. 
Fatto sta che non me lo lasciai ripetere e cominciai a stilare nella mia mente una lista di richieste possibili, anche se non sapevo ancora da dove avrei cominciato. 
Una cosa, ad esempio, che volevo chiederle, e chissà perché, era se le era mai capitato di ritrovarsi completamente nuda davanti ad un uomo. Mi bastava sapere questo, per cominciare. Poi, la storia sarebbe andata avanti sul filo delle risposte che mi avrebbe dato, o anche non dato, perché qualche possibilità di non assecondare proprio tutte le mie curiosità se l’era riservata. Quelle che le sarebbero apparse domande troppo personali, che riguardavano la sfera più intima, poteva anche trascurarle. 
Una regola che si era data, forse anche rigidamente imposta e che, almeno per il momento, intendeva rispettare. Poi, magari, con l’andare del tempo, con l’approfondimento della conoscenza reciproca, si sarebbe lasciata andare ad alcune confidenze, qualcosa che considerava segreti inconfessabili ma che, evidentemente, tali non dovevano essere, se metteva in conto la possibilità di rivelarli a qualcuno, sia pur in determinate condizioni che, però, io non avevo ancora individuato. 
Ci avrei lavorato nei giorni a seguire perché è così che si costruisce una storia. Le parole nascono dall'intimità e pian piano acquistano un sapore diverso da quello originario.
Insomma, se si era mai spogliata in presenza di un uomo, se era stata la richiesta di quell'uomo, o se l’aveva fatto perché convinta di quello che stava facendo. Che stava, cioè, per attraversare un binario da cui non sarebbe più tornata indietro. Da quel punto in avanti una storia completamente nuova, una strada del tutto diversa. Non più dubbi, non più paure, non più ansie.
Ma questa era probabilmente una di quelle domande su cui si sarebbe riservato il diritto di non rispondere. Senza, peraltro, avvertire la necessità di fornire una giustificazione più o meno plausibile. Ma era nei patti. Se non voglio rispondere non devo motivare il mio rifiuto, aveva premesso, come per difendersi da eventuali richieste non gradite.
Avevo accettato lo stesso, qualcosa avrei potuto comunque ricavare, non poteva di certo fare scena muta per tutto il tempo. Qualcosa, anche di non vero, doveva pur dire. Altrimenti, non avrebbe accettato l’invito.
Ci eravamo dati appuntamento per un aperitivo. La storia delle domande l’avevo tirata fuori io, senza avvisarla, da un precedente scambio di messaggi in cui le avevo proposto di immaginare una scena che poteva metterla in imbarazzo, qualcosa di cui aveva paura, o vergogna. 
Non sapeva cosa replicare. Fammi tu, piuttosto, delle domande, se mi va ti rispondo. Ma allora, così, potrei chiederti qualunque cosa? Tu prova, poi vediamo. 
Che poi, rispondere ai messaggi whatsapp è una cosa diversa rispetto a quando ti trovi davanti la persona che ti pone delle domande. Entrano in gioco altri fattori, lo sguardo, gli occhi, l’arrossire delle guance, a volte, la tensione che si trasferisce sul volto, l’agitazione nervosa delle mani che cercano le chiavi, la borsa, le dita che torturano le ciocche dei capelli, una tosse provvidenziale e la schiuma del cappuccino che rischia di sporcare il rossetto. Le parole che non sempre escono nella forma più appropriata, col rischio di rivelare più di quello che si vorrebbe o dovrebbe dire in questi casi. 
Ed io lì, come un deficiente, ad aspettare chissà da quanto tempo. Avevo finito di mangiare il croissant integrale ripieno di miele e avevo gustato il caffè senza zucchero con la solita calma, ma poi mi ero perso dietro questi pensieri aspettando una risposta che non veniva. Ero intento ad osservarla, impacciata e nervosa come non mai. 
E allora, non mi avevi detto che potevo chiederti di tutto? Rimase ancora a pensare, non del tutto convinta delle parole da usare, come se da quella risposta dovesse dipendere il futuro della sua vita. O almeno una parte importante. 
Era disorientata, come dentro un incubo. Come quando si finisce sotto un peso che non lascia respirare. La vita legata ad un filo d’aria che arriva a fatica da uno squarcio in fondo ad un tunnel. Allora speri che si allarghi, che faccia entrare altra aria, quella che serve per continuare  a sperare. Alla fine ce la fai, riesci a sopravvivere, ma quanta fatica, uno sforzo sovrumano. Era cosi, lei in quel momento, scampata ad un pericolo enorme. Aveva bisogno di riposo, di ritrovarsi un po’. Non ce la faceva a reggere il peso di certe domande. 
(continua) 

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