Il lettore legge sempre un libro
diverso rispetto a quello che l’autore ha scritto.
Entra nelle pagine con la propria
cultura, con la propria preparazione, con la propria esperienza. Che è
necessariamente altra, diversa da quella dell’autore.
Non può, il lettore, capire tutto
di quello che legge (di certo nemmeno l’autore può possedere un quadro completo
di tutte le implicazioni che ciò che ha scritto può provocare e suscitare in un
lettore. Ma questo è un altro discorso).
Ho letto “Nel vento”, ultimo lavoro di Emiliano Gucci, e mentre lo leggevo
sentivo che mi suscitava delle impressioni, delle reazioni, delle riflessioni,
dei quesiti, che in ordine sparso riporto di seguito.
Nel vento
Subito, fin dalle prime righe,
senza mezzi termini, veniamo informati che il narratore ha perso il fratello in
circostanze tragiche, e più tardi anche la sua compagna. E, ci viene detto
anche, che è per questo che corre.
C’è una persona che corre,
dunque, che sta per iniziare una corsa che sembra importante.
Nella realtà la corsa non dura che
una manciata di secondi. Emiliano Gucci invece è riuscito a costruirci un
romanzo in cui la narrazione, incentrata su questa corsa, si protrae per oltre
cento pagine.
Nella fase immediatamente
precedente la corsa, fermo sulla linea di partenza, il protagonista torna a
pensare ad episodi della sua vita, e contemporaneamente osserva e commenta i
comportamenti dei suoi compagni di gara.
Un puzzle di ricordi, che
arrivano all’improvviso, senza preavviso, da mondi ed esperienze diversi, che convergono
a costituire e costruire il passato. Il narratore sembra attingere da un
repertorio di frasi custodite in un archivio via via arricchitosi di
impressioni suscitate dalle tante esperienze vissute. Sembra di assistere ad
una caccia al tesoro dei ricordi.
I fatti rievocati si manifestano
come episodi isolati, che all’apparenza sembrano non avere un filo conduttore
comune. Eppure ci dovrà pur essere! Sono curioso di scoprire anche questo
aspetto, qual è il collante, cioè, che tiene uniti tutti questi episodi.
Vengo catturato dalla lettura, ma
forse, per rendere giustizia ad Emiliano Gucci, sarebbe più corretto dire dalla
qualità della scrittura/struttura della narrazione.
Risposte nel vento
E il racconto va avanti di questo
passo, suscitando nel lettore una certa curiosità. Vorrebbe sapere, ad esempio,
per quante pagine il romanzo potrà continuare così, o il perché di quel titolo,
o ancora che parte avrà il bellissimo uccello che appare in copertina, e
vorrebbe avere delle risposte chiare alle tante altre domande che sorgono
spontanee man mano che si inoltra nella lettura.
Ci fu un tempo in cui, proprio nel
vento, successe che un lupo paralizzò il protagonista ed il fratello, dopo
averli raggiunti con lo sguardo. Sarà questa la risposta ad uno dei quesiti?
C’è l’attesa della corsa, e c’è
l’aspettativa di capire come e perché il fratello del protagonista sia stato
ucciso dal padre: sono molle fondamentali che fanno andare avanti senza alcun
indugio nella lettura.
C’è una falsa partenza e un
centometrista viene squalificato.
C’è un’altra falsa partenza.
Altra squalifica.
Ci sono proteste tra il pubblico,
fomentate dalle reazioni del secondo corridore squalificato. La corsa rischia
di essere sospesa.
Quanta azione c’è in queste
pagine?
C’è la pioggia, tanta pioggia,
come in “L’umanità”, il precedente
romanzo di Gucci e c’è molto altro ancora.
Ci sono almeno due motivi, fra
altri, che mi spingono a continuare la lettura di questo romanzo: che l’autore
si decida a svelarci cosa è successo veramente al fratello del protagonista, e sapere
come andrà a finire la corsa.
Mi chiedo anche se sia stato facile,
narrativamente parlando, rimandare per così tante pagine il momento dello start, o se l’autore aveva strutturato
fin dall’inizio così il romanzo, in maniera da far durare tanto questa fase
prima dello sparo o se, ad esempio, poteva durare anche per molte altre pagine,
se chi ha scritto si è fatto prendere la mano ed ha seguito un istinto, fino a
quando non ha ritenuto di essere abbastanza soddisfatto di quello che è
riuscito a costruire.
Chissà se la corsa è qualcosa di fondamentale
nell’economia della storia, un’ambientazione indispensabile, oppure tutti i
ricordi, le scene del passato, potevano essere rievocati, con la stessa
significativa potenza in un qualsiasi altro contesto.
Qual è la storia, infine? La
storia è la corsa, la sua preparazione, la parte finale?
In fondo la descrizione della
gara in sé non c’è quasi, dura meno del tempo effettivamente impiegato per
essere percorsa.
Ecco, se avessi di fronte Emiliano
Gucci, sono queste le domande che mi piacerebbe porgli, per soddisfare
curiosità che forse sono legittime ma forse hanno poco senso, perché ognuno
scrive per rispondere ad un’esigenza che non sempre è in grado di spiegare o
contenere, e spera, almeno per il tempo della scrittura, di vivere un periodo
di appagamento o felicità che difficilmente potrebbe vivere in altro modo.
Aspettative del lettore
Ed al lettore, cosa resta alla
fine di questa gara?
Un sentimento di delusione, per
non aver colto, o intuito fin dall’inizio, distratto forse dalla forza
dell’evocazione, chi è stato, ad esempio, ad aver raccontato questa storia, o
se la storia doveva necessariamente essere questa, oppure poteva anche essere
un’altra, e cosa ha fatto sì che fosse questa e non un’altra; o di frustrazione,
per non aver ricevuto risposte soddisfacenti ai tanti dubbi sorti nel corso
della lettura.
Ed allora, non gli resta che ricominciare
a leggere il romanzo, subito appena girata l’ultima pagina, oppure anche a
distanza di tempo, per riassaporare la gioia della lettura di questo splendido
lavoro, per capire come, con dosaggio persino estenuante, l’autore ci presenta
dettagli di un passato che stenta a definirsi nella sua interezza, e per
capire, allo stesso tempo, come abbia saputo saggiamente disseminare lungo la
narrazione quegli elementi necessari a ricostruire un puzzle che, una volta
ricomposto, disvela l’opera di uno scrittore che, approdato alla Feltrinelli,
potrà finalmente essere apprezzato per le sue qualità anche da un pubblico più
ampio.
Lo stile narrativo fa pensare ad
una sorta di lungo monologo, di confessione anche, ricreato a volte con una
scrittura rapsodica, modulata sul ritmo di una memoria che recupera ricordi da
un passato avvolto in un’aura di mistero, forse anche troppo, con mele morse
rimaste su un tavolo, teste di gatti tagliate di netto, verità tenute
opportunamente nascoste, un passato che non c’è più, o non serve più. È
passato, appunto, e forse il fine della scrittura, del narrare, attraverso la
rievocazione, è proprio questo. Una volta finito l’esercizio della narrazione,
una volta che la corsa è finita, quel passato non serve più.
Corsa come metafora della scrittura
Ci potrebbe essere anche un’altra
chiave di lettura di questo romanzo, e per spiegarla devo innanzitutto accennare
ad un mio limite, o piuttosto una sorta di deformazione professionale che però di
professionale ha ben poco: ogni volta che leggo un romanzo, quando provo ad
analizzare il testo, non posso fare a meno di individuare e rinvenire nelle
parole, nelle frasi che ho davanti, una frequente interrelazione ed un continuo
parallelismo tra l’oggetto della narrazione e la pratica della scrittura.
Così, a voler dar credito a
quest’altra interpretazione, la corsa, quella del romanzo, diventa metafora
della scrittura.
A ricercare nel testo, tanti sono
i passaggi, inquadrati nel contesto della corsa e di quanto gira attorno, in
cui è possibile rinvenire riferimenti all’arte della scrittura.
C’è anche il discorso della droga
nello sport, del doping, delle
scommesse, delle combine, ma questi
aspetti, anche se rivestono un ruolo importante nel contesto della vicenda
narrata, preferisco non affrontarli o lasciarli in secondo piano.
Ciò che qui mi interessa
sottolineare, ancora una volta, sono alcuni passaggi che, anche in questo caso,
possono ricondurre la narrazione agli aspetti interessanti dell’attività della
scrittura (“Il mio corpo è gestito da
altri”)
E quanto al rapporto con Caterina,
questo passaggio: “Io, nei giorni in cui
ero veramente innamorato di Caterina abitavo la sua anima, in certi precisi
momenti, io ero lei” mi fa venire in mente la celebre frase “Madame Bovary c’est moi” di Flaubert.
E proseguendo: “... potevo sentire quello che lei sentiva,
ragionare con la sua testa ma soprattutto vivere l’istante con il suo corpo”.
E gli esempi possono continuare,
anche con riferimento ad altri personaggi: “A
volte, al momento dello start, distraendomi mi distolgo da me stesso e mi
sembra di cogliere le anime di tutti i
miei avversari. Mi sembra di sentire le loro attese, i motivi. Singolarmente
ognuno di loro si mostra a me , il suo cuore diventa io...”.
C’è lo sforzo di organizzare gli
elementi che serviranno per la costruzione della trama, e c’è allo stesso tempo
la faticosa ricerca delle parole adeguate per scrivere una storia su una corsa
importante: “Ne trovo soltanto alcune,
mentre intuisco che tutte le altre verranno quando sarà il momento opportuno”
fa dire Gucci al narratore.
C’è il “posto giallo”, metafora della fantasia, dell’immaginazione, dove
tutto è possibile, tutto ha diritto di cittadinanza, tutto può trovar luogo: “...era nel nostro mondo giallo che potevamo
trovarci senza bisogno di gesti né parole”, oppure “Basta camminare fino a lì per sapere di trovarci Caterina”, o ancora
“... ho sognato un posto giallo perfetto
per noi”.
C’è, in definitiva, un dialogo costante,
o comunque un rapporto continuo, con l’opera che sta lentamente nascendo.
Finale di partita
La corsa anche come un’occasione
per scappare, per fuggire.
Il protagonista corre per
liberarsi dalle conseguenze di un fatto traumatico, occorso in un altro tempo, un
evento che ritorna, e che determina e condiziona la vita nel presente, che
continua a dispiegare i suoi effetti sull’oggi, prima che si verifichi un
evento che gli consentirà di affrancarsi dall’incubo che si è portato dietro per
tanti anni.
Il passato quindi è “presente”
anche in questo caso, come in “L’umanità”.
Il protagonista vuole vincere,
per dire l’ultima cosa che resta da dire, per smascherare la trama, o per
finire tutto, e lasciare che i riflettori si spengano per sempre.
“Era scritto che sarei tornato a correre”
La corsa così si trasforma e
diventa una fantasia, più esattamente una “aleatoria
fantasia”.
Anche la corsa in sé è fantasia.
La fine della corsa, il taglio del
traguardo, coincide con la liberazione da un peso opprimente, e quel “magnifico dolore”, motore primo che
muove la scrittura, e che in questo caso ha prodotto “Nel Vento”, può essere utilizzato nuovamente per ricominciare tutto
da capo, per la creazione di un’altra storia.
Emiliano Gucci
Nel vento
Feltrinelli - 2013
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