Il cane rifletteva sul divano.
Il cane sembrava attento alla discussione, alla testimonianza, alla deposizione.
Il cane bofonchiava in attesa del suo turno.
Adesso il cane è in prima fila; medita sulla parola da pronunciare, da sillabare. La vendetta sta covando persino fra le dita. Lo si capisce dal modo irritante in cui sposta i documenti, muove i fogli, quasi strappandoli e intanto si tormenta gli occhi con l’indice della mano destra. Il filo bianco pescato chissà dove fa mostra di sé sulla manica della giacca. Non si stacca nonostante strofini il braccio, del tutto involontariamente, sia ben chiaro, sulla scrivania, quasi tremando, facendo sobbalzare il rappresentante dell’ufficio che sembra piuttosto attento alla relazione del giudice che espone dettagliatamente i fatti e le questioni della controversia. Tanta precisione però alla lunga stanca lo stesso relatore che comincia a dimostrare segni di cedimento nella lettura del testo cui si appiglia per cercare di portare a termine il suo compito. Righe saltate, parole scambiate, respiri affannati, la penna che gira e rigira fra le mani chiedendosi quando mai finiranno quei fogli e quanto tempo saranno ancora disposti a sentirlo le persone che assistono all’udienza. Anche gli altri giurati ormai non ce la fanno più a sopportarlo e allora passiamo direttamente alla difesa delle parti che nonostante tutto sono entrambe soddisfatte della relazione di cui sopra. Ammettono fin dall’inizio che il relatore è stato esaustivamente preciso nell’esporre il caso in questione e ci sarà ben poco da aggiungere. Salvo poi a voler precisare qualcosina che può rendere più comprensibile i termini della controversia. Ed è così che il cane, dopo aver spento il cellulare che stava cominciando inopportunamente a squillare, attacca ad abbaiare quando non addirittura a ringhiare la sua difesa che tra guaiti e gestualità irriverenti denuncia il linguaggio aldilà del politichese usato dall’ufficio nella redazione dell’atto impugnato. Ma cosa crede, che è sufficiente sproloquiare e ringhiare, peraltro confusamente, senza una linea coerente, per poter convincere la commissione? Sbuffa tra una citazione di articoli di legge e convinzioni personali sulla poca o nulla validità del criterio supposto logico dall’ufficio nell’emissione dell’avviso di accertamento. È sufficiente tutto ciò per poter, e qui chiudo, chiedere (“appare ragionevole” non fa parte di un organo tecnico) l’illegittimità?
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