Lettori fissi

mercoledì 30 gennaio 2019

Disturbi di luminosità – 5





Ricominciare? Se ci provo è la speranza di trovare una nuova intuizione che mi induce a farlo, di fondermi con la tua mente, ma anche col tuo corpo. Essere te. Ma anche Lei. Essere comunque.
La prima volta leggi, così, per capire dove sei andato a parare. Ti fai un’idea sia pur vaga. Non hai capito molto e allora ci riprovi. Al secondo tentativo alcune nebbie cominciano a diradarsi ed emergono certi particolari che ti incuriosiscono, e che vorresti chiarire, vorresti approfondire.
Non vuoi lasciare le cose a metà e così decidi di ripartire per un nuovo viaggio, una nuova avventura.
Sai che può sembrare assurdo ma capisci che questo romanzo dopo i tanti approcci ha dentro qualcosa che non ha ancora esaurito la sua spinta propulsiva, possiede un’energia che non ha dispiegato del tutto i suoi effetti e allora ti lanci in un’ennesima esplorazione perché, in fondo, leggere questo libro e continuare a farlo è stato avviare una ricerca anche all'interno di te stesso, un’indagine sui tuoi disturbi e vorresti ripulirti dei mali che ti avvinghiano.


Ilaria Palomba
DISTURBI DI LUMINOSITÀ

mercoledì 23 gennaio 2019

Disturbi di luminosità - 4

Sto usando un taccuino troppo piccolo, insufficiente a contenere le cose che vorrei scrivere. Ho deciso comunque che quello che ho da dire su questo romanzo dovrà starci tutto. Non devo dilungarmi, non sprecare fiato. Devo dosare le forze e tenere conto delle pagine che ancora mi rimangono da leggere e monitorare i fogli che via via vado riempiendo per farmi un’idea sia pur vaga di quelli che ancora rimangono su cui scrivere con accortezza e possibilmente evitando di ripetermi. La scrittura deve essere un esercizio oculato. Così mi sembra. Ma non sempre mi riesce. Forse dipende anche da quello che sto leggendo.
Non so quali pensieri eliminare. La testa è un mulino che sta triturando il respiro. Non ho la forza di oppormi a niente. Le parole che mi passano addosso si stanno lentamente svuotando di significato. Una vibrazione leggera, quasi inavvertibile, mi tiene ancora in vita, cioè, attaccato a queste pagine.
Non ho nulla. Non avrò nessuno al mio capezzale quando arriverà il momento.

Non ricordo se l’avevi già chiesto. Adesso o nella reincarnazione precedente, nell'altro giro, se ho una famiglia, un lavoro, se sono felice. Non ricordo la versione dei fatti di allora. Ma non dev'essere diversa da quella che emerge da queste parole. Non è cambiato molto nel frattempo.
Non ho evidenze che ci sia coerenza in questo tuo lavoro, ancorché mi intestardisca a voler trovare ad ogni costo una sia pur vaga traccia. Questo romanzo è un puzzle che si ricostruisce nel tempo, il quadro finale si compone unendo le tessere ripescate nel passato con altre che vagano confuse in attesa di essere pescate e con altre ancora che verranno.
Qual è la forza che potrà tenerle unite? L’immagine che ne viene fuori è ancor più confusa, per nulla chiara. È un sogno che vacilla, tremolante, poco stabile.
Se chiudo gli occhi la lettura mi risulta più facile. Se scivolo verso il sonno le storie diventano più morbide, perdono la durezza, la spigolosità che si portano dietro nello stato di veglia.
Se chiudo gli occhi la lettura sparisce. Rimane qualcosa che oggi non so valutare.
Se chiudo gli occhi rimane il passato. Niente.
Come si parla di un non romanzo? Cosa c’è da dire? Viene continuamente richiesto un mio intervento, almeno la mia attenzione, che non deve essere distratta da niente. Sei ossessiva, ossessionante.
Mi sento a pezzi, cioè, spezzettato. È la conseguenza della lettura di questo romanzo, che romanzo non è. Forse allora neanch'io sono io. E quindi non sono a pezzi. La tentazione di affermarlo è tanta. Ma non sono ancora sicuro. Sono dichiarazioni forti. Se ho ragione sono messo davvero male. Chi vince perde, è proprio così. Non so cosa augurarmi.
Leggo di notte, quando la testa è confusa, satura. Non entra più niente. Provo a spingere a forza le frasi, le parole. Niente. Leggo ma non mi si fissano dentro, perdo immediatamente il ricordo delle cose appena lette. Non so da cosa tutto questo dipenda. L’oscurità del testo? O il sonno, che ormai si è impossessato di me senza che permetta di rendermene conto?
Solo quando mi scuoto mi accorgo che ho ancora il libro tra le mani e se riprendo a leggere mi sembra di inoltrarmi in un mondo sconosciuto, a me del tutto ignoto.
È l’effetto dei disturbi che transitano direttamente dalla pagina a quello che resta di me, le storie ormai definitivamente estinte. Non ho ancora completato la rilettura del romanzo ma già penso di poter azzardare un qualche bilancio.
Te lo dico in tutta sincerità, quando un testo dà l’opportunità di elaborare pagine come quelle che sto scrivendo, e che stai leggendo, non può che essere un fatto positivo. Ma non è tutto. So che le sorprese non sono ancora finite. Ho come un ricordo di qualcosa di eclatante. Non esattamente memorabile, ma nemmeno qualcosa che passa in secondo piano, o che lascia indifferente.
E del resto, cosa richiedere di più ad un romanzo? Quando suscita emozioni, di qualsiasi tipo, ha già raggiunto il suo scopo. Ha già ottemperato al compito proprio della buona letteratura. E quando, poi, la lettura diventa bisogno fino a trasformarsi in necessità vitale, allora il gioco è fatto. Ti ho nei miei pensieri, ti porto con me a letto. Sarà tutto un altro sonno, completamente diverso.
- Diverso da cosa?
- Diverso dalla vita.

Leggo le frasi come fossero i versetti di un libro sacro, le storie come parabole. Io un fedele infedele. Nessun dio da adorare che non sia il fascino delle parole, il suono delle frasi pronunciate a voce alta, un rosario che continuo a sgranare nella speranza di poter ritrovare una speranza in questa orazione sorda. La scrittura, come la lettura, è un atto di fede, bisogna crederci, altrimenti tutto è vano, tutto svanisce.
La possibilità di cambiare le parole appare illimitata. Il problema è il labirinto che si crea e come riuscire ad evadervi, sempre che lo si voglia.
Forse la sto tirando troppo per le lunghe ma del resto la seconda lettura non è stata ancora completata e, a dire il vero, me la sto centellinando come un buon vino perché penso già al momento in cui finirà, quando arriverò all'ultima pagina. Non sono del tutto sicuro di ricominciare, avviarmi verso il terzo tentativo. Non puoi pensare che possa vivere una vita di disturbi, dei tuoi disturbi, solo dei tuoi.
Non mi giudicare male per queste considerazioni. Sono mesi che vivo di te e non so dire che vita è stata. In passato mi è capitato di vivere dei lunghi periodi in cui una sorta di masochismo o, se vogliamo dirlo con le parole del poeta, il farmi male a una ferita sempre aperta, mi ha tenuto compagnia come l’unica filosofia, il solo interesse ad agire. Questa circostanza si è riproposta con il tuo disturbo. Ma anche il male, se perpetrato a lungo, smette di essere un piacere. È la fine di un amore? Troppo presto per dirlo.
Ho ancora bisogno di te, delle tue parole. Al mattino mi sveglio con l’idea di recitare una preghiera, mi piace essere coinvolto continuamente, essere chiamato in causa dai tuoi inviti, a cui peraltro non so resistere, anche se non forniscono soluzioni ai miei problemi. Almeno penso.
E del resto, che speranza potrò avere? Ho come snobbato i consigli che hai dato al lettore fin dall'inizio, li ho presi sottogamba, ho voluto sorvolare, strafare forse e, adesso, mi ritrovo con un pugno di mosche oppure, sì, via, sono rimasto soggiogato dal fascino dell’ignoto, quella trama di misteri che hai saputo sapientemente ordire fin dalle prime pagine. Ti sei fatta gioco della mia vanità ed io, come un allocco, ci son cascato miseramente.
E adesso, aiutarti? Ho sbagliato tutto. Non ho capito niente. Io che pensavo di trovare conforto fra le tue pagine. Ma come ho fatto a non capirlo subito? Cosa mai avrei potuto ricavare da un romanzo con i disturbi nel titolo? Con quella copertina, poi?
L’unica consolazione, le pagine che sono riuscito a produrre, frutto di uno sforzo indotto, di un’incalcolabile fatica, ma quanto intensamente vissuta. Forse dovrei riconoscerti questo merito. Almeno questo.
Non mi hai fatto diventare donna, come avrei voluto, per entrare nei tuoi pensieri. Ma forse non era questo il tuo intento.
Tu hai abbandonato questo romanzo, l’hai regalato al mondo, questa divina commedia in versi sciolti, senza rime né accenti da rispettare, nessuna convenzione metrica che potesse reggere al flusso dei pensieri che per natura o definizione non può sottostare a nessuna regola.
Una divina commedia che di commedia ha ben poco e ancor meno di divino. Hai attraversato, ed io insieme a te, i sentieri più infuocati dei gironi infernali. Io ne ho fatto l’uso che ne ho voluto. Almeno penso. La mia esperienza l’ho acquisita dalla lettura. Potrà bastare?

Leggo e rileggo gli ultimi capitoli. Non voglio perderti. Ho paura, come di restare solo per sempre. Ma forse no, qualcosa di te la porterò con me anche dopo la fine della lettura. Almeno penso. Almeno spero. Ho bisogno di te che mi pensi.
Per quale ragione dovrei seguirti nelle tue astruse peregrinazioni? Perché mai? Continuo a chiedermelo irresistibilmente attratto dalla fascinazione di enumerazioni più o meno caotiche che non riesco a decifrare, di orditi ripescati da una memoria confusa, ma quanto presente, che non so decrittare. Non so ricostruire nulla del mio passato, né inventarmene uno almeno credibile.
La mia storia con te si sta avviando malinconicamente verso la conclusione. Ma non potrà finire così. Come se ci fossimo conosciuti per gioco o, peggio ancora, per sbaglio, e adesso ci salutiamo senza averci percorso l’un l’altra. È una storia rimasta a metà. E invece vorrei compierla tutta, fino alla fine. Che poi, non so bene cosa sia la fine, ma manca ancora qualcosa, questo sì, lo intuisco. Non ho vissuto al cento per cento il rapporto con te. Ci sarà occasione per recuperare? Quando finisco non tutto finisce.
(continua)

Ilaria Palomba
DISTURBI DI LUMINOSITÀ

mercoledì 16 gennaio 2019

Disturbi di luminosità - 3

Ma una recensione come si deve non riesci proprio a farla, mi domando ripetutamente, quasi per convincermi che anch'io potrei essere normale, se solo mi impegnassi un po’, e invece no, non so cosa sia la normalità, né sono un critico letterario. Uso ogni testo come fosse un pretesto. Per scrivere, essenzialmente di me. Non so fare altro.
Questo romanzo mi ispira più di altri. Potrei continuare a scrivere chissà per quanto, potrei leggere e rileggere queste pagine ed ogni volta è una storia nuova, ogni volta una riflessione diversa. 
Posso considerarmi un lettore forte anche se leggo e rileggo lo stesso libro senza soluzione di continuità? Quanti libri leggo in un mese? Se leggo libri molteplici come questo me ne basta uno. Me lo faccio durare per settimane e settimane. Potrebbe bastarmi anche per un anno.
Questo che sto leggendo non è un romanzo. Questo che sto scrivendo nemmeno. Però potrei pensarci. Cos'è un romanzo? Il contenitore di una storia (o di più storie)? 
Cos'è una storia? Il contenitore di una vita (o di più vite)?
Cos'è una vita? È necessario viverla per intero per poter formulare la risposta a questa domanda?
Cos'è una domanda? Un circolo vizioso a cui mi aggrappo per non precipitare nell'abisso, nel vuoto di un’esistenza vuota.
Tentativo difficile.
Le parole mi attraversano il corpo. Lo trafiggono. Non sono del tutto sicuro di uscire illeso dalla lettura del libro. Mi riempio delle frasi di cui ti sei svuotata scrivendolo. È un passaggio. Vorrei gridarti che è abbastanza, che ne ho abbastanza. Ma il bisogno di farmi male mi costringe a proseguire.
Anch'io ho sostituito i romanzi alla realtà. Da molto tempo ormai. E non ho bisogno di nessun oracolo che me lo ricordi. Vado dicendo da anni che un giorno resterò impigliato in qualcuno di questi romanzi e non riuscirò più a venirne fuori. Forse quel momento è già arrivato.
Assorbo il tuo ritmo. Sarà che sto entrando in una certa sintonia con i tuoi pensieri? Mi turba l’idea di violare un’intimità a cui non ho alcun diritto di accedere. Non senza il tuo permesso. 
Cerco tra le parole che leggo. Cerco tra le parole che non so trovare. Qualcosa. Almeno qualcosa. Vado a ritroso nella continua rilettura, sempre alla pagina precedente, e ancora indietro, per ritrovare un appiglio, o forse un punto fermo che mi faccia capire che, sì, questo me lo ricordo, per ricreare un ordine nella memoria, per ricostruire uno straccio di storia che forse non esiste ma che testardamente mi ostino a credere che ci sia, sperando di trovare, dovrà pur esserci, un filo da seguire anche nel caos più buio.
È già autunno ma c’è ancora un riverbero di estate, uno strascico che mi illude. Anche le stagioni si confondono, si intersecano sulla superficie del tempo, con sfumature che non lasciano intravedere il passaggio. Così, in questo lento scorrere, la vita viene presa in giro e mi ritrovo a non aver ricordo di niente, forse perché semplicemente non c’è stato niente. L’unica consolazione, far parte di una storia che, ad intervalli più o meno regolari, rileggo, provando a ritrovarmi senza peraltro riuscirci sempre. Almeno così non si è persa del tutto. La vita, intendo. Sempre che possa servire a qualcosa. Squarci di ricordi che irrompono nel presente. Ma, mi sto perdendo, lo so.
Non ci sono cieli nelle mie storie, ne altri, attorno. Dentro quella gabbia, chi è scappato ha lasciato un posto che presto io stesso riempirò, se dentro non ci sono già. Ma ancora non mi vedo, segno che ho ancora qualche speranza di salvarmi. Dovrò aspettare di ripercorrere la strada fino alla fine, fino all'ultima pagina, poi, tirerò le somme, trarrò le mie conclusioni.
Sento di essere il corollario di quel testo. Un allegato che non vive di vita propria. Un satellite che vaga perso nel vuoto, attaccato disperatamente ad un’orbita che non so dove mi condurrà. Forse finanche un parassita.
Di notte raduno i ricordi della giornata appena trascorsa. Ma non solo, mi spingo anche oltre, confusamente oltre. Stancamente, anche. Cerco un motivo per continuare la ricerca. A volte è solo voler vedere fin dove riesco a spingermi. Come quando corro. 
Non ho un traguardo da raggiungere che non sia, ogni volta, quello di superare un limite immaginario che però non so quantificare. Non saprò mai se sono riuscito nell'impresa. È così anche quando frugo nella memoria. Ho la sensazione di perdermi facilmente, mi sento come smarrito, senza riferimenti. 
Questo romanzo non me ne dà, oppure non so trovarli. Non nelle forme a cui sono avvezzo. È un panico continuo. Ma forse si tratta solo di una questione di interpretazione. Mi piacerebbe dire che io e te la pensiamo allo stesso modo, che siamo la stessa persona. Mi piacerebbe credere che sia stata la mia parte femminile ad aver scritto questo romanzo.
A chi mi rivolgo quando parlo? Chi è il destinatario di questi deliri? Immaginami mentre scrivo. 
È incredibile come abbia assorbito il tuo lessico. Così spontaneamente. Mi sorprendo a ripetere le tue parole come fossero una mia creazione. Segno che ho interiorizzato una parte di te, che questo romanzo esiste ed è un romanzo reale. 
Ti scriverò tutta col tempo, penso di riuscirci, fosse anche verso la fine della corsa. Arriverò privo di forze, almeno, però, sarò pronto per affrontare il passaggio.
Sto imparando a conoscerti giorno dopo giorno, pagina dopo pagina, parola dopo parola. La cronaca in diretta dei tuoi giorni, la cronaca dei miei. Il mondo là fuori va avanti. Io resto chiuso dentro le pagine del libro, al massimo tra le ragnatele di un taccuino a cui affido amare considerazione senza fine. I ricordi non si uniscono come le maglie di una catena, restano sciolti, liberi di vagare nella memoria.
Capire il senso complessivo di quell'opera che è la vita, non solo del romanzo. È da un’eternità che ci sto provando.
La memoria dovrà pur appigliarsi a qualcosa. Dovrà procedere seguendo un ordine, o una strada, un indizio. Dovrà pur avere un obiettivo. La galassia dei ricordi, in sé, è un caos, un universo informe e senza ordine alcuno. Non è un’operazione semplice richiamare i momenti belli del passato, e non solo perché sono rari, o si sono dileguati chissà dove. Si sono perse le tracce o almeno il legame che li teneva uniti, che li collegava al presente. Un mondo che sembra essersi perso per sempre. Io non ho nessun oracolo che mi aiuti a farli riaffiorare, sempre che possa servire a qualcosa.
Le cose avvengono senza che riesca ad intervenire. La vita mi passa addosso in maniera scomposta. I vuoti che si creano non so riempirli con niente.
Capire il senso complessivo di questo romanzo. Ma basterebbe anche un senso frazionato, parziale. Non importa che sia breve, io me lo faccio durare il tempo necessario che, man mano che vado avanti nella lettura e nella rilettura e negli eventuali approcci successivi, si può prolungare smisuratamente.
Lo leggo finché trovo qualcosa da spremere, ne distillo la linfa vitale per il tempo necessario a farmi andare avanti. 
(continua)

Ilaria Palomba
DISTURBI DI LUMINOSITÀ

giovedì 10 gennaio 2019

Disturbi di luminosità - 2


Anch'io ti amo. E anch'io ti odio. Forse comincio a capire. Sono quello che ho scritto. E anche quello che ho letto.
Mi sento tirato in ballo di continuo. Se mi piace la vita? Se ho una famiglia? Un lavoro? Se sono felice? Ma è davvero a me che ti stai rivolgendo? Potrei sentirmi coinvolto fino in fondo. Sento di precipitare in un baratro da cui forse non uscirò mai. Ho le vertigini, anche se non ne soffro.
A volte mi prende un istinto di mollare tutto, riporre il libro sul ripiano più alto della libreria, per non ritrovarmelo più davanti agli occhi. Perché continuare? Ma poi, no, devo farcela, anche a costo di non capire molto. È questo il senso della lettura? Un sacrificio continuo? Non dovrebbe essere, piuttosto, un piacere? Più avanti ci sarà la chiave che mi consentirà di valutare meglio ciò che sto leggendo, e quando ricomincerò dall'inizio sarà un’altra storia. La prima volta è una pena necessaria per poter godere in seguito, nell'approccio seguente. È la mia versione dei fatti.
Le storie sono fatte a pezzi, qualcosa riesce a staccarsi dall'unico grande ricordo integrato, emerge, viene alla luce, è un parto difficile, ma è ciò che serve. Altrimenti, solo buio.
Io non dovevo essere niente, cioè, non sapevo di dover essere qualcosa, o qualcuno. Era così la mia vita. Quest’ignoranza col passare degli anni si è un po’ mitigata, ma in certi momenti mi accompagna ancora. È una dura battaglia per la sopravvivenza.
Non dovevo piacere a nessuno. Tanto meno a me stesso. Né trucco, né capelli, né smalto, né seno, niente di cui interessarmi. Oggi è troppo tardi per recuperare.
Io ti leggo, ma non so se è lettura questo passare gli occhi sulle pagine del libro, pronunciando anche ad alta voce le parole, che non mi restituiscono alcun significato, che non comunicano altro se non i miei fantasmi che si presentano a chiedermi un conto che non so saldare. Non sono del tutto sicuro che era questo che ti aspettavi da un lettore.

Confesso, non è stato semplice. Ho come la sensazione di aver frequentato una persona, una donna, per un periodo di tempo anche abbastanza lungo, e di averla conosciuta solo vagamente. Me ne sono fatta un’idea confusa, forse perché non ho prestato la dovuta attenzione ai particolari, distratto dalle apparenze, o forse dalle appariscenze provocanti e a volte persino irritanti. Avrò occasione di ricredermi, semmai.

Forse questo romanzo, se così si può definire, è dedicato anche a me. Però vorrei sbagliarmi. Ma, dimenticavo, non è un romanzo. È un viaggio, dentro i meandri di una mente che non so definire.
Dovrò fare così. Una linea da seguire. Dovrò interrompermi quando non so come continuare. Lasciare a metà una frase, anche, o incompleto il tentativo di esprimere un concetto.
Mi stai scrivendo? Non mi sento scritto. O non so immaginarmi così. Eppure è un’idea affascinante. Spesso mi sono perso anch'io rincorrendo simili progetti, senza capire, tuttavia, se ci sia mai riuscito. A realizzarli, intendo. Sono rimasti là, alla mercé di eventuali studiosi interessati ad approfondire ed analizzare il senso dei miei scritti. Così mi illudo. E anche questo andrà ad ingrossare quelle fila. Perduto. Parole al vento.

Io, questa tipa, non è che mi sta andando proprio giù. Cioè, continuo a combattere con certi pregiudizi di cui non so individuare l’origine. O con la mia ignoranza.
Mi sentirei di scrivere tante cose. Anche di quello che vorrei fare con lei. Qualcosa però, qualcosa che non conosco, mi trattiene. Cioè, ogni volta mi fa interrompere.
Vorrei, ad esempio, pronunciare il suo nome a voce alta. Il nome Ilaria. Per vedere l’effetto che fa. E poi, sì,  vorrei portarmela a letto. Sto pensando a lei, ovviamente, non a qualcuno dei personaggi del suo romanzo, peraltro piuttosto fumosi. Anche in questo caso per vedere l’effetto che fa.
Mi sono fatto l’idea che così potrei capire qualcosa in più di quello che ha scritto. O anche soltanto qualcosa. Ma forse sbaglio. Cioè, non c’è un fondamento scientifico in questi pensieri, sempre che la scienza abbia un qualche valore.
Non vorrei sembrare irriverente nei suoi confronti, ma la franchezza non è una mia dote, non qualcosa che scaturisce spontanea, ed allora, quando mi passa un’idea per la testa, prendo subito nota, a costo di apparire offensivo, villano, impertinente o che so io e la lascio da parte per il momento opportuno.
Sono davvero libero di scegliere? E se sì, fino a che punto? Non vorrei che si scambiasse un’eventuale illusione di libertà con un qualche obbligo a cui non riesco a non soggiacere. Un’imposizione di cui non sono in grado di individuare l’artefice. Si potrebbe definire libertà, questa? Se non riesco a sottrarmi alle sue frasi? Cioè, a farne a meno, come fossero la linfa che mi mantiene in vita? Sento di non avere scelta, altra scelta che proseguire. Un giorno tutto ritornerà. Tutto più chiaro.

Non è stato facile. Il testo che ho appena finito di leggere non è un romanzo. Non volevo crederci. Pensavo fossero le solite parole di circostanza, di quelle che si mettono all'inizio per ingannare il lettore, per incuriosirlo e stimolarlo, per indurlo, cioè, a cominciare a leggere. Pensare che era stato detto chiaro e tondo. Stupido io a non dar credito fin da subito ad una verità nuda e cruda, e a voler trovare chissà cosa dentro quelle prime frasi.
E tuttavia, se nel corso di questa relazione, sì, insomma, di questo scritto, avessi necessità di fare riferimento al testo a cui sono ormai praticamente incollato, non esiterei un attimo a chiamarlo romanzo. Così, ad esempio, questo romanzo è un’ossessione.
Mi appello o, forse, mi aggrappo alle residue forze che mi rimangono. Penso che mi capirà. Più di quanto io non capisca le sue parole, esplicitate in forme poco chiare o comunque non immediatamente comprensibili. Non a me, almeno.
Ritrovo ancora l’altalena, quel ragazzo, la pineta, immagini lontane, nel tempo e nello spazio. Primitive, anche, come elementi di una mitologia più che primordiale, che sembra abbiano lasciato segni inestinguibili.
Vorrei interloquire con i tuoi pensieri, come se ne fossi a conoscenza. Immaginarti mentre mi scrivi. Toccarti mentre mi stai di fronte. Solo per il gusto di sapere che ci sei e per apprezzare l’effetto che fa.
Riprenditi pure il corpo ma lasciami almeno una speranza. Di poter entrare nei tuoi pensieri. Capire quello che sei. Imparare a vivere. Ad amare, forse. Mi disturbano i tuoi disturbi, i messaggi che non so cogliere, non ho ben capito se per mia incapacità o perché ti stai prendendo gioco di me, un burattino che rischia di finire strangolato dai fili che con perizia ed abilità riesci a tirare senza darlo troppo a vedere.
È la tenzone di cui ho già parlato nella vita precedente, nella prima lettura. Quella che mi ha, non so se maleficamente, introdotto a te.
Ritrovo anche l’Oracolo, e poi Lei. Mi sembra già di far parte di questa famiglia, che arriva da lontano. Ma non mi va di parlare dei miei trascorsi, di quando giravo con le tette al vento. Ho preso a prestito le parole del poeta solo per dire che ciascuno ha avuto un modo proprio di valicare i confini prestabiliti, comprensivi degli effetti più o meno indesiderati.
Sono arrivato a te senza essermi mai domandato cosa sarei stato se non avessi sprecato, ma il termine è un po’ forte, quegli anni di vita così. E non riesco a chiedermelo ancora oggi. Non so se ho fatto bene, ma sento che prima o poi arriverà il giorno in cui dovrò fare i conti con quel passato. Questi tuoi disturbi accelerano il processo, ne sono certo e, del resto, man mano che passano gli anni, quel momento si approssima sempre più e non vorrei essere colto di sorpresa senza prima aver scandagliato i segreti dell’abisso in cui sono stato relegato da forze a me estranee, ignote e che, forse, vorrei poter riconoscere grazie proprio al tuo romanzo, un giorno scoprirò. Allora sarà tutto più semplice.
Ritorno a casa dal lavoro con una gran voglia di ritrovarti. Il libro sul tavolino al lato del divano. Riprendo a leggere. Non da un punto preciso. Non cioè da dove avevo messo il segnalibro che marcava il punto in cui avevo interrotto la lettura. I pensieri non hanno un prima e un dopo. Tocca a me ricostruire un percorso. È con un piacere quasi infantile che mi sottopongo a questo gioco, a questo scherzo che sembra infruttuoso. O a questa sfida che affatica. Dal piacere al dolore, o viceversa, è un attimo.
Sono un altro quando leggo. Provo ad immedesimarmi nei personaggi, divento un abitante dei luoghi descritti, godo della compagnia di sconosciuti. Non provo vergogna a posare nudo di fronte ad una donna mai vista prima, né imbarazzo a farci l’amore.
Questo romanzo non mi apre le porte di un nuovo mondo. Non perché non sia nuovo. È che non lo so, perché è un accesso difficile, angusto, quello attraverso cui devo passare. Le vie sono scivolose, i marciapiedi viscidi, l’avanzare stento. Non so dove riuscirò ad arrivare procedendo ad occhi chiusi. Non sarai soddisfatta di ciò che vado dicendo. Le parole risultano ambigue, piene di incognite. Ma forse tu ti ci ritrovi.
Questo romanzo non è un romanzo. Basterebbe che credessi a questa dichiarazione per arrestarmi qui e non proseguire oltre. Né a leggere né a scrivere. Del resto, non si può scrivere niente del niente. Chissà cosa ti aspettavi. Chissà cosa mi aspettavo. Parole. Eppure, forse scriverò tutta la notte. Non voglio che svaniscano presto gli effetti dei momenti, stavo per dire tormenti, trascorsi insieme a te. Attraverso i luoghi dei tuoi viaggi, mi sembra di vedere il mondo da una distanza che non riuscirò mai a percorrere.
Dall'alto tutto appare diverso. Dall'alto dei miei anni. Non ho molta fiducia che possa riuscire a capirci qualcosa. Almeno qualcosa. Tanto meno i disturbi di donna, che tu lo sia o meno. Ogni frase è un percorso in salita, vorrei raggiungere la vetta e respirare l’aria pulita, inebriarmi delle atmosfere rarefatte del tuo pensiero. Vedere tutto più chiaro, leggerti negli occhi, abbracciarti in un silenzio irreale. Anch'io vorrei liberarmi del mondo che mi circonda, non essere più niente.
Questa lettura è una nuova lettura, di qualcosa che non ho mai letto. Questo romanzo è un altro romanzo.
Leggo, ma la frase appena letta mi sfugge, scompare dissolvendosi. A nulla serve ricominciare se non sono in grado di entrare nei tuoi pensieri. Mi verrebbe da chiederti un consiglio. Voglio vivere. Sto affogando nell'aridità. Sono quasi affondato.
Questa copertina d’altri tempi! Chi era chiuso dentro quella gabbia è riuscito a liberarsi. Non appare evidente come abbia fatto. Importa poco saperlo, tanto, il messaggio è chiaro.
(continua)

Ilaria Palomba
DISTURBI DI LUMINOSITÀ

mercoledì 2 gennaio 2019

Disturbi di luminosità - 1

L’idea che ho, quasi certezza, è che non sarà facile. Già capire le frasi in epigrafe risulta un’impresa. Mi giustifico dicendo che non conosco la fonte, che le parole vanno contestualizzate, che non si possono estrapolare dalla loro sede naturale, metterle in esergo in un libro e pretendere allo stesso tempo di poter coglierne il significato autentico. Mi sembra una scusa quantomeno plausibile. Vado avanti.
Poi una sorta di premessa, di avvertimento, prima dell’inizio, prima della divisione del romanzo in capitoli. Colpo di scena. Non mi trovo di fronte ad un romanzo e di questo sono perentoriamente avvisato fin da subito. 
Già percepisco come una sensazione di nuotare in acque torbide. Un po’ sono abituato, a dire il vero, le cose che leggo di solito non hanno un andamento lineare, nulla di facile, tanto che capita, e non di rado, di dover interrompere la lettura per manifesta incapacità di capire cosa vado leggendo. 
Questa volta, però, e nemmeno troppo velatamente, vengo messo di fronte ad un bivio. È un avvertimento bello e buono, del tipo, non dirmi poi che non te l’avevo detto. Non so cosa aspettarmi. So solo che, ovviamente, non cadrò nella trappola del terrore, respingo al mittente ogni tentativo di intimidazione e vado avanti più convinto che mai.
So bene cos'è la captatio. Sono aduso a questi sotterfugi, non mi lascio ingannare facilmente. 
Ma tu, piuttosto, lo sai che ti sto usando per scrivere una storia? Certo, non puoi saperlo, o non è così che intendevi l’interazione. O forse sì, e allora, da qui alla fine, ne vedremo delle belle.
Il primo capitolo non è il primo, cioè, il primo capitolo è il capitolo zero. Proemio o provocazione? Sono diffidente, starò in guardia. Per quanto mi riguarda, la lettura non è mai stato un atto semplice e ho avuto spesso una relazione conflittuale col testo, col narratore, con l’autore e, a volte, persino con l’editore, soprattutto con quelli a cui ho inviato un manoscritto e che non si sono mai degnati di rispondere, oppure sì ma si sono limitati a dire che l’opera non rientrava nei loro piani editoriali, una maniera gentile per dire che faceva schifo, o giù di lì, sempre che si siano mai degnati di leggerla.
Ho sempre desiderato conoscere un altro me stesso, uno che ha visto cose che io non ho visto, che ha fatto cose che io non ho mai fatto. Ecco, in mezzo a queste pagine potrebbe nascondersi il mio alter ego femminile.
Leggo frasi che non mi entrano, come fossero fatte di parole che non riesco a capire, con cui non ho confidenza. Trasmettono messaggi a me del tutto estranei, anche incomprensibili. Un alfabeto ignoto. Capita la stessa cosa anche quando a scrivere sono io.
Così mi perdo e disperdo le energie. Ho bisogno di ritornare sulle cose già lette, le pagine, le frasi, i capitoli. Leggerò con più attenzione, lentamente. Voglio entrare nella mente di chi racconta, sempre che sia possibile. Voglio decifrare questa rapsodia che quasi mi disturba. C’entrerà qualcosa con il titolo?
Leggere questo testo equivale a ricostruire un puzzle partendo da tessere che non danno molti punti di riferimento, cosicché avere un quadro completo della situazione risulta davvero difficile, si rivela un’operazione alquanto complicata. Ecco perché, quasi sicuramente, sarà necessaria una seconda lettura e, forse, anche una terza. 
Questo lo capirò già dalle prime pagine. Non so se ripartire adesso dall'inizio, dopo la lettura dei primi capitoli, oppure è meglio arrivare fino alla fine e quindi ricominciare. Ma penso che andrò avanti, cioè, nonostante tutto, anche se non colgo completamente il senso di ciò che vado leggendo. Mi tengo questo dubbio. La rilettura sarà un’altra cosa, cioè, un’altra storia.
Schizofrenia, forse. Questa lettura è un’autoanalisi. Forse è così per ogni testo. Forse dipende dall'impegno che ognuno ci mette. Io vorrei provarci. 
Sono fatto di quello che sono. Di quello che sono stato.
Io, però, ti perdono, cioè, ti capisco. La prosa sperimentale è una lusinga cui difficilmente si resiste. Ci sono passato anch'io. Non voglio scoraggiarti, o distoglierti. Tutt'altro. Sono disposto a fare di tutto perché possa continuare a coltivare i tuoi sogni, e la circostanza che sono qui a leggerti ne è una dimostrazione lampante. E poi, il libro l’ho anche voluto, desiderato, cercato, fino ad averlo tutto per me e adesso me lo sto godendo, come un amore difficile ma che, sono sicuro, alla lunga mi restituirà le soddisfazioni su cui avevo puntato, una fiducia correttamente riposta. Sì, è un incoraggiamento a proseguire su questa strada, qualora ne avessi bisogno.
Ma chi sono io per dirti tutto questo? Me lo chiedo con una certa insistenza, a momenti persino irritante. Adesso che ci ripenso non so darmi una risposta ma ormai il dado è tratto. Mi sembra che si dica così, cioè, penso che ci stia bene in questo caso. 
A volte ho bisogno di liberarmi persino dei verbi. Diventano pesanti, una zavorra che mi blocca, mi inibisce e mi impedisce di proseguire. Mi sento più libero senza quei pesi, quasi fossero dei vincoli cui necessariamente sottostare, pena una chiarezza di esposizione almeno auspicata. E invece no. Voglio vivere i miei momenti di libertà dai predicati, essenzialmente verbali. Frasi spezzate, disabilitate. Anche sconnesse sul piano temporale. 
Sai cosa ti dico, in tutta sincerità? Che la tua scrittura mi irrita. Forse, però, la mia è anche un po’ invidia.
La vita è fatta a scatti, ad episodi, in qualche modo raccordati, spesso con momenti vuoti, spazi che non lasciano alcun segno. A guardarla sembra un unico filo senza interruzioni. Ma spesso i giorni sono scollegati fra loro, l’oggi nulla a che vedere con il domani, e viceversa. Schizofrenia anche questa, forse. 
Non sono niente senza te, e senza gli infiniti altri te. 
Arriverò fino alla fine e poi, semmai, ricomincerò. Troppe le cose tenute nascoste, dette a metà. Mi aspetto che prima della fine vengano svelate, altrimenti avrò perso il mio tempo. L’intrigo si deve sciogliere, non può rimanere mistero per sempre, diversamente è malattia, una qualche malattia a cui non mi sento di dare un nome, e non solo per mia ignoranza. 
Le storie si possono raccontare in tanti modi. Le mie capacità critiche, poche, in verità, non mi consentono di recensire i tuoi pensieri, non come mi piacerebbe se invece mi trovassi di fronte a pagine più chiare. Mi resta l’assillo irrazionale, o ingiustificato, di volere a tutti i costi avvicinarmi a te. Non conosco un altro modo se non quello di proseguire nella lettura e fare affidamento sulla ripartenza.
A quest’ora tarda di una notte di metà settembre decisamente ancora estiva non ho il coraggio di abbandonarti. Non mi sento di lasciare il libro sul divano. Ti porto a letto con me. Qualcosa ne ricaverò ancora. E poi, comunque, ti ritroverò nell'ultima spiaggia, quella dei sogni. Tanto sono sicuro che domattina non ci sarai più. O meglio, non sarai più la stessa di oggi.
Tu hai il tuo Oracolo. Io ho te. E mi sforzo di immaginarti partendo dalle parole che leggo, dai segnali che dissemini qua e là e che seguo a fatica.
La tua sincerità, o la schiettezza, mi rende diffidente al massimo grado nei tuoi confronti. La tenzone rischia di diventare lotta crudele. Non voglio cedere, essere accalappiato, e non è alterigia o falso orgoglio. È che ancora non sei entrata in me e forse non basterà una semplice rilettura. Ma aspetto di capire di più, aspetto di arrivare alla fine.
Ho perso il segno, cioè, si è sfilato il segnalibro. Non ricordo dov'ero arrivato. Ricomincerò da un punto qualunque. Se qualcosa riemerge la ripetizione non fa male. Se invece sono andato oltre ed ho saltato inavvertitamente qualche pagina, so che ci sarà comunque un’altra possibilità, e forse anche più. Dipende dall'energia che mi sarà rimasta, o dalla voglia di conoscerti che, al momento, è tanta. Sufficiente, in ogni caso, a farmi ritornare sui miei passi e ricominciare la lettura dall'inizio. 
Nonostante tutto mi trovo bene a nuotare fra le tue acque, torbide o meno. Un bagno ristoratore, una curiosità insaziabile. Ti confesso una cosa, vorrei non capirti mai, per avere l’opportunità, o la scusa, di ritrovarti, ogni volta che ne sento la necessità, di entrare nei tuoi disturbi per illuminarmi, per trovare la luce che non ho, che mi manca e di cui avverto una disperata necessità, qualunque cosa voglia significare.
Non so se potevi raccontarla in un altro modo questa storia ma, di certo, un’eventuale versione “normalizzata” dopo poche pagine non mi avrebbe spinto ad andare avanti, non avrebbe, cioè, suscitato il mio interesse.
Questa volta il segnalibro c’è ma il risultato non sembra diverso. Ancora perso in mezzo a locuzioni che sento che non mi appartengono. Quanto tempo sarà necessario per scioglierle, per decifrare l’effetto delle tante frasi ad effetto. Faccio fatica a seguirti. Mi manca la visione di insieme. Il puzzle non si compone. Le tessere restano sul tavolo, sparse, disperse, solitarie. Così, non riesco a godere, per citare un verso della tua poesia. 
Sento come un dovere onorare un impegno a scrivere qualcosa. Niente di più deprecabile. Sarebbe stato meglio, non aver mai preso contatto con te, o nessun compromesso. I sentimenti, cioè, le reazioni alla lettura, sarebbero scaturiti spontaneamente, in maniera del tutto normale, non come una forzatura innaturale. Ma tant'è, la promessa, quella di parlare del libro, di ciò che mi ha suscitato, la promessa è debito anche se con te rischio di ridurmi al fallimento.
Il puzzle da ricostruire abbraccia più tempi e più spazi. Corpi celesti vaganti nell'universo. In mezzo, liquidi che non riesco a bere, se non a piccoli sorsi, polveri che non so assaporare. Sarà così fino alla fine? Non voglio crederci, sarebbe la mia, di fine.
È una tensione continua, uno sforzo enorme di concentrazione, non so se ben ripagato. 
(continua)

Ilaria Palomba
DISTURBI DI LUMINOSITA'